IL NATALE E LE FESTE DEL PLENILUNIO DEI PASTORI (*)

di Carlo Frison

1 - Introduzione Nel calendario romano detto "Cronografo del 354" appare la più antica attestazione della celebrazione del Natale alla data del 25 dicembre, con l'aggiunta della specificazione che la nascita di Gesù avvenne al plenilunio (1). È ben nota la coincidenza simbolica del Natale col solstizio, che ai primi tempi del calendario giuliano cadeva proprio il 25 dicembre, mentre non è stata presa in considerazione dagli studiosi quella col plenilunio. La comparazione interreligiosa rivela l'importanza dei riti dei pastori legati al plenilunio. Il sole e la luna erano visti come allegoria della vita, della morte e della rinascita. Le principali cerimonie dedicate alla luna si svolgevano al plenilunio e al novilunio. Il novilunio richiamava l'idea della morte, mentre il plenilunio era visto come il momento più favorevole delle nascite. Permane tuttora la credenza che nelle notti di luna piena nascano più bambini. Sembra che la simbologia lunare fosse più sviluppata presso i nomadi allevatori e i pastori. Diversamente, le comunità di agricoltori, avendo l'esigenza di seminare nella stagione appropriata determinata dal corso del sole, davano più importanza alla simbologia solare. Il culto degli allevatori era rivolto al Signore degli animali, all'Essere Supremo celeste creatore e agli spiriti degli antenati. Era credenza che il Signore degli animali fosse salito al cielo e si fosse unito con l’Essere Supremo celeste creatore.

2 - I calendari romani La nascita di Gesù al plenilunio ha avuto come primi adoratori i pastori. Il Natale è quindi da confrontare con le feste di origine pastorale celebrate al plenilunio, principalmente la Pasqua ebraica e i Lupercali. In primo luogo consideriamo le tradizioni dei pastori italici per cercare l’origine dell'annotazione suddetta nel Cronografo del 354. Dapprima si deve spiegare la coincidenza delle feste del plenilunio e del solstizio nel calendario romano e metterla in relazione con la festa dei Lupercali; poi si deve spiegare, dal punto di vista etnologico, le analogie dei Lupercali con altre feste di ambiente pastorale. Indubbiamente i Lupercali sono più antichi del tempo di Romolo; però cadevano nel periodo dei due mesi mancanti nel calendario detto di Romolo. Forse il successivo calendario di Numa è derivato da profonde modifiche di quello di Romolo, necessarie per migliorarne l’adeguamento dei mesi lunari all’anno solare. Il calendario di Numa aveva 355 giorni e l’adeguamento era realizzato con la regola principale di intercalare un mese di 22 o 23 giorni ogni due anni. Nessuna indicazione precisa ci è pervenuta, invece, sul metodo di adeguamento del calendario di Romolo, applicato probabilmente durante i due mesi mancanti. Possiamo solo ricostruirne un funzionamento possibile da poche notizie sparse.
Il calendario di Romolo, era formato da 10 mesi, mancando gennaio e febbraio, uso conosciuto anche dagli etruschi. Sei mesi erano di 30 giorni e quattro di 31 giorni, per un totale di 304 giorni. Il numero dei giorni dei mesi fa pensare a un calendario solare. Questo è confermato da Macrobio (Saturnali 1, 12, 39), che riferisce dell'aggiunta dei due mesi mancanti fatta in modo da rispettare il “clima adatto”, cioè le stagioni determinate dal sole. L’uso ufficiale di un calendario solare è insolita. Normalmente il calendario usato era lunare di dodici mesi di 29 o 30 giorni, più un mese intercalare, perché le feste religiose principali seguivano le lunazioni. L’eccezione del calendario di Romolo non può essere spiegata che supponendo in aggiunta un calendario lunare per le feste religiose. I due calendari separati sarebbero stati coordinati per adeguare le stagioni alle lunazioni con un metodo diverso da quello del mese intercalare.
Fortunatamente abbiamo l’essenziale notizia dell’inizio e fine dell’anno di Romolo. La data tradizionale di fine dell’anno riferita da Ovidio (Fasti I, 163-164), era alla ‘bruma’, nome dato al giorno più corto, il solstizio invernale: “Bruma novi prima est veterisque novissima solis; principium capiunt Phoebus et annus idem”. (Invernale è il primo giorno del sole nuovo e l’ultimo dell’antico; Febo [dio del sole] e l’anno cominciano insieme). La coincidenza della fine anno col solstizio non si verificava nel calendario di Cesare, il quale lo pone al 25 dicembre, e nemmeno in quello di Numa, stando a una notazione del reperto prenestino di questo calendario, che lo pone al 21 dicembre (2). Quindi sarebbe da collocare questa coincidenza nel calendario di Romolo.
Ancora da Ovidio abbiamo altre due notizie di date lunari per il calendario di Romolo. La prima è l’inizio dell’anno nel mese di marzo e l’inizio del mese di marzo alle calende, cioè al novilunio (Fasti III, 135-136): “Neu dubites primae fuerint quin ante Kalendae Martis, ad haec animum signa referre potes...”. (Affinché non dubiti che le calende di Marte fossero le prime, puoi porre mente a questi segni...). La seconda notizia è la fine dell’anno al decimo plenilunio (Fasti III, 121): “Annus erat, decimum cum luna receperat orbem.” (L’anno termina quando la luna riprende la rotondità la decima volta). Qui orbis significa la rotondità della luna piena, non la sua l’orbita attorno alla terra, perché l’orbita lunare è il mese siderale di 27,32 giorni, mentre per le feste religiose si contavano i pleniluni, che si succedono ogni 29,53 giorni, un po’ più di un’orbita. Perciò, Alan E. Samuel (3) traduce questo verso con “a year was over when the moon returned for the tenth time to full moon.” Queste poche notizie sul calendario di Romolo ci danno un’idea di come fosse usato. Gli astronomi avrebbero disposto i dati in due registri. Il primo registro conteneva la numerazione delle osservazioni astronomiche (novilunio, plenilunio, solstizi), dove si poteva contare la differenza di giorni dal solstizio al plenilunio più vicino. Il secondo registro conteneva il computo dei giorni basato sul periodo di 8 giorni detto nundinae (da novem dies, contati includendo il giorno di partenza). I 304 giorni dell'anno di Romolo sono formati da 38 periodi nundinali, mentre 37 periodi nundinali danno 296 giorni, che sono l'approssimazione per eccesso di 10 mesi lunari. Altro multiplo notevole è 360 formato da 45 periodi nundinali, che si approssima all’anno solare. I periodi nundinali continuavano indefinitamente anche durante i due mesi mancanti, perché fissavano il giorno di mercato. Il conto dei giorni di mercato, a partire da quello più vicino al solstizio, sarebbe servito per organizzare i lavori agricoli e i commerci.
Il funzionamento del calendario di Romolo sarebbe stato l’inverso di quello dei calendari lunisolari. Questi hanno i mesi lunari (29 e 30 giorni) che si spostano rispetto alle stagioni del calendario solare sottinteso. Invece, il calendario di Romolo ha i mesi solari (30 e 31 giorni) che si spostano rispetto al sottinteso calendario lunare, in modo da porre il 1° marzo, inizio dell’anno, al novilunio. Alcuni semplici conti spiegano un metodo possibile. Seguendo le informazioni di Ovidio, cominciamo dal 1° marzo al novilunio. Il primo plenilunio dell’anno cade alle idi di marzo. Siccome le feste duravano più giorni, consideriamo la durata del plenilunio dal 13 al 15 del mese (se le calende fossero state fissate all’età di un giorno della luna). Dopo altri 295 giorni cade il decimo plenilunio. In totale sono trascorsi da 308 a 310 giorni. Sono superari i 304 giorni dei dieci mesi solari, ma non ha importanza, perché si entra nel periodo variabile dei due mesi mancanti. Supponiamo che il decimo plenilunio coincida con la bruma, realizzando la coincidenza segnata nel Cronografo del 354. A questo punto supponiamo che esistesse la regola di celebrare i Lupercali al secondo plenilunio dopo il solstizio. Il secondo plenilunio cade almeno 30 o 31 dopo il solstizio, quando il primo plenilunio avviene il giorno dopo il solstizio; e cade al massimo 60 giorni dopo il solstizio, quando il plenilunio di riferimento avviene il giorno prima del solstizio. Infine, in conseguenza della regola suddetta, il novilunio successivo alla celebrazione dei Lupercali è quello adatto per fissarvi il 1° marzo inizio del nuovo anno.
Per trovare qualche sostegno a questa ricostruzione, bisogna allontanarsi da Roma. La concomitanza di solstizio e plenilunio come regola per accordare l’anno lunare con quello solare si trova nell'antico calendario degli angli, attribuibile anche alle tribù germaniche, che era di 12 mesi lunari e iniziava l'anno al plenilunio più vicino al solstizio invernale, stando a quanto riferisce Beda il Venerabile (4). Di maggiore significato è un dato archeoastronomico rilevato nel territorio padovano, rinomato nell’antichità per la produzione di lana. Ci sono motivi per ipotizzare che i Lupercali fossero festeggiati anche dai pastori del Veneto. In età del ferro, Padova aveva una cittadella sacra nella zona della basilica della Madonna del Carmine. Una direzione astronomica osservabile dalla cittadella indicava il tramonto del sole 56 e 57 giorni dopo il solstizio, dietro le cime di due monti dei colli Euganei, il monte della Madonna e il monte Grande (5). Il numero di giorni è vicino a due lunazioni, per cui poteva corrispondere alla data dei Lupercali. L’ipotesi è rafforzata dalla probabilità che l’inizio dell’anno al 1° marzo nel vecchio calendario di Venezia continui l’uso dei paleoveneti del calendario di Romolo.
Il conteggio di 56 o 57 giorni troverebbe conferma in una notazione di Macrobio (Saturnali, 1, 13, 1-7), secondo cui Numa avrebbe fissato inizialmente l'anno di 354 giorni con due mesi di 28, gennaio e febbraio; e poi avrebbe aggiunto a gennaio un giorno, affinché solo febbraio, dedicato agli inferi, restasse di giorni pari, considerati nefasti. I due mesi hanno insieme 56 giorni, che sono sette periodi nundinali, oppure 57 giorni includendo nel conto anche il giorno delle nundinae precedenti. Detto per inciso, al nostro tempo questo tramonto si verifica 54 e 55 giorni dopo il solstizio, cioè il 14 e 15 febbraio.
La coincidenza di plenilunio e solstizio sarebbe stata occasione di celebrazioni religiose più solenni, cumulandosi le feste legate ai due fenomeni astronomici. La memoria della rilevanza di queste feste sarebbe stata tramandata fino al Cronografo del 354. La frequenza del fenomeno astronomico deve essere calcolata con l’approssimazione della durata usuale di tre giorni delle maggiori feste religiose. Ne sono esempi il calendario celtico di Coligny, che ha segnato una terna di giorni attorno ai pleniluni e noviluni; il Cronografo del 354, che ha la fase lunare segnata di tre in tre giorni (ma talvolta due); e gli usi dei babilonesi che fissavano la festa del plenilunio al 14° giorno del mese, ma la celebravano anche il 13° e il 15° giorno. Con l’approssimazione di tre giorni del solstizio e del plenilunio, la coincidenza dei due fenomeni in almeno un giorno avviene in un intervallo di cinque giorni. L’ampiezza dell’intervallo rende la coincidenza verificabile in media una volta ogni 6 anni. All’importanza della coincidenza di solstizio e plenilunio sarebbe dovuta la lunga durata dei Saturnali, che nel calendario di Cesare iniziavano al 17 dicembre e avrebbero dovuto durate tre giorni, ma erano prolungati fino al 23.
Le difficoltà delle osservazioni astronomiche e del calcolo aritmetico erano affrontate dagli antichi con lo scopo di collocare le feste religiose al succedersi di posizioni simboliche dei due astri maggiori. I momenti fondamentali delle ricorrenze erano i solstizi, il novilunio e il plenilunio. La ricerca di conciliare le incongruenti posizioni dei due astri in un unico calendario è stata svolta in Occidente in modo indipendente dall'astronomia vicinorientale, ed è rimasta incomparabilmente lontana dalla precisione del calendario lunisolare mesopotamico. Il difetto di alcuni o parecchi giorni dei calendari romani, lamentato già dagli autori latini, rivela la scarsa abilità nei calcoli aritmetici, che è invece alla base del calendario mesopotamico. L'uso del calendario cosiddetto di Romolo richiede semplicemente il conto dei giorni applicato all'osservazione degli astri all'orizzonte. È un calendario compatibile con la cultura pre-protostorica di una popolazione europea, di cui si trovano le tracce nelle forme geometriche di siti orientatati astronomicamente.

3 - I Lupercali
Il rito dei Lupercali era una festa di carattere pastorale della classe dei patrizi. L'importanza di questo rito è dimostrata dal fatto che fu introdotto anche a Costantinopoli probabilmente fin dalla fondazione della città. Il rito ha caratteristiche arcaiche e preurbane, dai significati analoghi a quelli della Pasqua ebraica. La prima questione è l'individuazione del dio dei Lupercali, sul quale gli antichi avevano opinioni difformi. Al rito partecipavano due giovani chiamati luperci, ma nulla del rito si riferirebbe a un dio Luperco. Per contro, ci sono degli indizi del culto di Giove. Alla festa partecipava il Flamine Diale, sacerdote dedito a questo dio. Lo svolgimento della corsa rituale dei due giovani, uno della gens Fabia legata a Fauno e l'altro della gens Quinctia legata a Giove, aveva come perdente quello della gens Quinctia (6). La sconfitta del luperco gioviale significherebbe che il sacrificio era dedicato a Giove. Questo sarebbe in contraddizione con l'affermazione di Ovidio (Fasti II, 289) che i Lupercali rappresentavano il tempo “prima della nascita di Giove", espressione che significherebbe un tempo prima dell'istituzione del culto Giove. Effettivamente i Lupercali sono considerati il rito più arcaico della religione romana. La contraddizione è risolta facendo il paragone tra Yahweh e Giove. Come il culto di Giove non è posto all'inizio dell'umanità, così nella Bibbia troviamo che “si cominciò a invocare il nome di Yahweh” solo dal tempo di Enos (Gn 4, 26). Però anche prima di Enos si sacrificava a Yahweh.
L’incertezza dell'identificazione del dio si constata in diversi esempi tratti dalle tradizioni dei popoli nomadi allevatori e pastori. I Koryak della Siberia orientale, che si sostentavano seguendo lo spostarsi delle renne, nel mese di marzo quando le femmine figliavano offrivano un sacrificio a "quello in alto" (7), espressione riferibile a un Essere Supremo celeste.
Le nostre conoscenze sui Lupercali si avvalgono anche della celebrazione di questo rito a Costantinopoli, dove fu introdotto sotto forma di una corsa ippica. Nel Libro delle Cerimonie di Costantino VII è trascritta una recitazione della festa in cui compare il seguente passo: “In seguito, il giovane si tiene alla destra dell'eparco, acclamante e dicente ciò: 'Colui che soccorre i Sovrani'. Il popolo: 'Dio unico', e il seguito come è consuetudine.” Il giovane è identificabile con uno dei due luperci, l'altro può essere rappresentato dall'eparco stesso (8). Mi pare che la cristianizzazione del rito con la proclamazione del 'Dio unico' sarebbe stata possibile solo se già i Lupercali pagani fossero stati dedicati a un Essere Supremo celeste. Il rito dei Lupercali era esclusivo dei patrizi, genti originariamente dedite alla pastorizia, e consisteva essenzialmente nel sacrificio di capretti e di un cane, cui seguiva la corsa dei luperci attorno al Palatino. Tuttavia, il rito che conosciamo non è esclusivamente pastorale, perché vi compaiono le vestali per offrire la “mola salsa” di farina di grano tostato. È immediato il paragone con la Pasqua ebraica, in cui il sacrificio dell'agnello è accompagnato dal consumo dei pani azzimi. Si tratta quindi del rito pastorale di sacrificio animale, ritenuto più antico, abbinato dopo la sedentarizzazione con quello agrario dell'offerta di pane fatto con le prime spighe. Dopo il sacrificio, i due giovani venivano toccati sulla fronte con un coltello bagnato del sangue dei capri immolati. Il sangue veniva poi asciugato con un fiocco di lana bianca immerso nel latte, e subito i giovani dovevano sorridere. Il rito appare come l'iniziazione dei giovani, che sono assimilati alla vittima sacrificale ricevendo il sangue sulla fronte, cui segue la risurrezione, venendo astersi con il latte alimento dell'infanzia. Si suppone che in tempi arcaici il sacrificio umano sottinteso fosse talvolta realmente compiuto, come ne sarebbe esempio il mito del cannibalismo del licantropo nei pleniluni.
I luperci, dopo il sacrificio, si stringevano i fianchi con le pelli ricavate dagli animali e si lanciavano nella corsa. In diversi esempi di sacrifici compare una corsa, o una fuga, spiegabile con il timore dei primitivi per la vendetta dello spirito degli animali sacrificati, chiamato dagli etnologi ‘Signore degli animali’. Nel rito delle Bufonie greche il sacerdote sacrificatore fugge gettando il coltello subito dopo il colpo mortale inferto al toro; e gli altri sacerdoti presenti inscenano un processo per individuare il colpevole, accusando alla fine lo stesso coltello del delitto. Questa fuga sembra paragonabile al vagare ramingo di Caino dopo il sacrificio di Abele, sebbene il suo continuo spostarsi potrebbe essere in relazione anche con l’agricoltura primitiva praticata col dissodamento di nuovi campi, prima dei metodi di concimazione efficaci. Per quanto riguarda il sacrificio dell’agnello pasquale, il paragone con la fuga è dato dall’esodo svoltosi precipitosamente. La Bibbia prescrive che, nella commemorazione dell’esodo, l’agnello deve essere mangiato nell'atteggiamento di chi è pronto a mettersi in cammino: “con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano, lo mangerete in fretta.” (Esodo 12, 11).
Durante la corsa, i luperci si avvicinavano alle donne per percuoterle con delle strisce di pelli degli animali sacrificati. Comunemente si dà a questo rito il significato di purificazione per assicurare fertilità ai campi, alle greggi e all'uomo. La fertilità era invocata nell'Inno alla Primavera, cantato durante i Lupercali celebrati a Costantinopoli, con le parole: “Signore, conservate il rinnovamento dei cicli annuali(9).” Ovidio (Fasti, II, 365-368) riporta un rito compiuto da Romolo e Remo quando avevano istituito, secondo la tradizione, i Lupercali. Essi, mentre i sacerdoti rimuovevano le viscere degli animali sacrificati, si esercitavano con dei dardi e lanciavano sassi. Si tratterebbe di riti apotropaici della fertilità dell’ambiente dei cacciatori e allevatori. Il lancio di sassi sarebbe collegabile al mito di Pirra e Deucalione della trasformazione in uomini dei sassi che lanciavano.
Per i primitivi, l'uccisione della preda assume il carattere di animalicidio. Si crea un complesso di colpa, aggravato dal timore del venir meno della preda futura. Il senso di colpa è superato attraverso una serie di espedienti rituali che consistono nella placazione dell’anima dell’animale e del Signore degli animali. Sono recitate finzioni cerimoniali tendenti a negare l'evento verificatosi e a riportare chi lo ha commesso nelle condizioni di innocenza, come se non lo avesse compiuto. Per esempio, le popolazioni altaiche dopo l'uccisione dell'orso eseguivano un cerimoniale in cui era vietato rompere le ossa. Analogamente, l'agnello pasquale degli ebrei non deve subire fratture delle ossa.

4 - La Pasqua ebraica
Seguendo l'usanza dei popoli semiti, gli ebrei avevano feste del novilunio e plenilunio. Queste ultime si sono intrecciate con il riposo sabbatico, usanza specificamente ebraica. Probabilmente la settimana deriva da un primitivo metodo di previsione delle eclissi con anticipo di sette giorni (10), circa un quarto dei diversi mesi lunari astronomici, ma il ciclo religioso sabbatico dei sette giorni, ovviamente, non può seguire la luna e continua senza interruzione passando da un anno all’altro. Il termine sabato deriva dalla radice verbale šabat, che significa 'cessare, riposare'. Il settimo giorno inizialmente è caratterizzato dall'astensione dal lavoro, senza obblighi cultuali particolari, che invece troviamo nelle feste del novilunio e plenilunio degli altri popoli. Il termine per indicare il plenilunio è poco difforme: šabbat, corrispondente all'accadico šapattum, festa del plenilunio. In ambito sumero-accadico si celebrava una festa al plenilunio presieduta dal re, che offriva al dio della Luna sacrifici di carne e frutti della terra, soprattutto in occasione del pasto serale. Le feste ebraiche del plenilunio dedicate a Yahweh sono state osteggiate e sradicate dai profeti, in particolare Isaia e Osea, perché simili alle feste del dio Baal dei cananei. In pratica il culto di Yahweh è stato trasferito dal plenilunio al settimo giorno e il termine šabbat non ha più indicato la festa del plenilunio, ma il sabato (11). L'unico plenilunio festivo rimasto è quello di primavera del sacrificio dell’agnello: la Pasqua, all’inizio dell’anno religioso. Questa situazione è paragonabile a quella romana in cui tutte le idi (che corrispondono ai pleniluni in un calendario lunare) venivano dedicate a Giove sacrificandogli una pecora bianca; e il plenilunio di febbraio, legato all’inizio dell’anno di Romolo, era quello dei Lupercali con sacrificio di animali.
Gli ebrei praticavano il sacrificio pasquale dell'agnello già prima della schiavitù in Egitto. Nella Bibbia compare la prima volta quando Mosè chiese inutilmente al faraone di permettere agli ebrei di celebrare una “festa nel deserto”, che gli studiosi intendono come il sacrificio dei primogeniti delle greggi compiuto dai pastori all'inizio della transumanza primaverile. Il rifiuto del faraone venne punito con una serie di piaghe, di cui la decima è stata lo sterminio dei primogeniti degli egizi, ma non di quelli degli ebrei grazie al compimento di un rito ordinato da Mosè, e cioè di sacrificare un agnello in ogni famiglia, e di spruzzare del sangue delle vittime sulle porte delle abitazioni. Il senso di questo rito è la sostituzione del sacrificio del figlio con una vittima animale, come abbiamo visto per i Lupercali, in cui i luperci venivano bagnati col sangue degli animali e poi astersi.
Si crede che solo dopo lo stanziamento in Palestina sia stata aggiunta al sacrificio dell'agnello la festa degli Azzimi, che consiste in una offerta primiziale delle spighe di orzo. Però già gli egizi celebravano al plenilunio la festa di Renutet, dea dei raccolti (12). Il sacrificio dei primi nati tra gli animali e l'offerta delle prime spighe sono interpretati come la desacralizzazione di ciò che è necessario per uso alimentare, possibile solo dopo averlo ritualmente riconosciuto appartenente a Dio.
Gli antropologi ritengono che l’uomo sia sempre stato onnivoro, contrariamente ai miti della primordiale età d’oro dalla alimentazione solo vegetariana. Anche nella Bibbia, inizialmente Adamo ed Eva si nutrivano solo dei frutti degli alberi del giardino (2, 8; 2, 16-17). Era un frutteto coltivato per l’alimentazione, perché non è detto che dovessero nutrirsi anche di erbe. I racconti religiosi evidenziano il timore dei primitivi di uccidere gli animali. Quindi è plausibile che l’offerta sacrificale sia il primo rito istituito, perché era il più necessario. Già nel racconto del giardino di Eden c’è un episodio che sottintende il primo sacrificio cruento. Al contrario di come gli artisti preferiscono raffigurare Adamo ed Eva cacciati dal giardino, nudi, un enigmatico versetto ci dice invece che erano vestiti: "Yahweh Elohim (il Signore Iddio) fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì" (Genesi 3, 21). La scoperta della propria nudità fatta da Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito, poteva avvenire solo in confronto con qualcuno vestito. Anche il serpente potrebbe essere definito nudo. Altri animali invece sono vestiti di piume o peli. Da qui nasce la correlazione tra la morte arrecata dal frutto proibito, mangiato su istigazione del serpente, e il desiderio di vestirsi di pelli d’animali. Il racconto non dice chi abbia ucciso l'animale servito per procurare le pelli. Ovviamente, per l’etnologia, è stato l'uomo che poi, sentendosi in colpa, offre a Yahweh le pelli, riconoscendolo il padrone della vita, ma tace dell’uccisione, come avviene nei riti sacrificali sopra citati. Yahweh così assume gli aspetti delle figure definite dagli etnologi ‘Signore degli animali’ padrone della vita, e ‘eroe civilizzatore’ per l’insegnamento della cucitura delle pelli.
Il fatto notevole è che Adamo ed Eva non siano cacciati subito dopo la disobbedienza di mangiare il frutto, ma dopo il sottaciuto sacrificio animale. La cacciata dal giardino ha l’aspetto del rito della fuga dopo il sacrificio. Il divieto ricevuto da Adamo era: “Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Genesi 2, 16-17). La conoscenza del bene e del male può avere diversi significati: metafisico, morale o più semplicemente può indicare il bene della vita e il male della morte. A trasgressione avvenuta, Adamo, oltre ad aver preso coscienza della propria mortalità, ha anche infranto il comando dell’alimentazione vegetariana. Infatti, fino allora l'alimentazione stabilita da Dio per l'uomo era solo di frutti, ma la domanda del serpente a Eva era capziosa: “È vero che Elohim ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?” (Genesi 3, 1). Siccome non è detto che si potessero nutrirsi di erbe, il serpente, escludendo anche i frutti, intendeva che si poteva mangiare carne, come faceva lui animale carnivoro. Quindi la conoscenza del male acquisita mangiando il frutto proibito è connessa con l’uccisione dell’animale per le pelli cucite da Yahweh. L’allontanamento di Adamo ed Eva dal giardino sarebbe interpretabile etnologicamente come un racconto derivato dalla fuga rituale del sacerdote sacrificatore.

5 - Il Natale
Nei primi secoli i cristiani avevano diverse opinioni sul giorno della nascita di Gesù. Solo nel IV e V secolo prevalse la data del 25 dicembre, che fa apparire il Natale in contrapposizione alle feste pagane del solstizio. Le opinioni sulla data erano influenzate da concezioni astronomiche, prevalendo dapprima il giorno dell’inizio dell’anno all'equinozio, o vicino all'equinozio, in conformità con la credenza che anche la Creazione fosse iniziata all’equinozio. Nel De Pascha computus lo pseudo-Cipriano fissa al 25 marzo il primo giorno della Creazione, al 28 la creazione del sole e della luna al plenilunio; e fissa proprio nel 28 marzo la nascita di Gesù, associandola alla condizione di equinozio e di plenilunio: entrambi gli astri maggiori sono allegorie degli attributi di Gesù. La più antica attestazione del 25 dicembre compare nel Cronografo del 354. Si tratta di un calendario pagano in cui sono inserite, in omaggio alla religione cristiana del destinatario del calendario, quattro feste cristiane: la nascita e la passione di Cristo, l’arrivo a Roma e il martirio dei Santi Pietro e Paolo. Il Natale è ricordato con la nota supplementare: “Hoc (sic) cons. dominus Jesus Christ natus est VIII Kal. Jan. die Ven. luna XV.”; cioè: “Durante questi consoli (C. Cesare Augusto e di L. Emilio Paolo), Gesù Cristo è nato nell'ottavo giorno dalle calende di gennaio, venerdì, il 15° della luna”. Tutta l'aggiunta al Cronografo non meriterebbe alcuna fiducia (13). Non si conoscono altri testi che indichino questa data. Giorno e fase lunare potrebbero essere state ricavate per parallelismo con il giorno della Passione avvenuta di Venerdì. Una spiegazione, proposta da L. Duchesne, attribuisce ai primi cristiani l'idea che l'Incarnazione avrebbe dovuto occupare un numero intero di anni, e quindi Gesù sarebbe morto nell'anniversario della sua concezione considerata inizio dell'Incarnazione. Stabilita la concezione al 25 marzo, l'intervallo di nove mesi porta la nascita al 25 dicembre. La spiegazione del Duchesne ha una valenza simbolica lunare. Anche in quei tempi si sapeva che partendo dal plenilunio della Passione il 25 marzo, non si arriva a un'altro plenilunio al 25 dicembre: la differenza di fase lunare tra le due date è approssimatamente di nove giorni. Quindi, i momenti particolari dei due astri maggiori sono simbolici, alla Pasqua l’equinozio e il plenilunio e al Natale il solstizio e il plenilunio. Il significato si trova nella concezione della morte e rinascita espressa con la personificazione dei due astri maggiori nelle religioni pagane. Sulla data del Natale come scelta per cristianizzare una festa pagana, sopprimendo i riti del solstizio, si è sempre scritto. Invece non si ha mai riflettuto sulla coincidenza col plenilunio; forse perché l’unica fonte che lo afferma è il Cronografo del 354. Eppure, non si dovrebbe presumere che l’affermazione del plenilunio sia senza motivi specifici.
Giovanni Battista predicando ha detto: “Bisogna che io diminuisca ed egli cresca.” (Gv 3, 30). L’interpretazione allegorica di questa sentenza paragona il Battista, nato al solstizio estivo, all’inizio della diminuzione delle ore di luce del sole, e analogamente la nascita di Gesù al solstizio invernale ha l’allegoria dell’inizio della crescita delle ore di luce solare. Tuttavia, non ci sono altre notizie nel Vangelo di collegamento col culto di Mitra, celebrato intorno al solstizio invernale. Invece il Vangelo ci offre gli elementi concordanti con le feste del plenilunio.
Nella narrazione del Natale del Vangelo secondo Luca, un angelo si reca di notte dai pastori per avvertirli dell'evento, ma non dagli agricoltori. “C'erano in quella regione alcuni pastori in mezzo ai campi che vegliavano di notte facendo la guardia al proprio gregge.” (Luca 2, 8). Chiaramente, l'angelo ha scelto dei pastori che casualmente si trovavano in una regione agricola. A loro ha rivolto l'esortazione di andare ad adorare il Cristo Signore nato a Betlemme. I pastori fecero quanto detto loro, glorificarono e lodarono Dio e riferirono a tutti ciò che avevano saputo del Bambino (Luca 2, 20). Ma questo episodio non ha ripercussioni nelle narrazioni successive del Vangelo. Né quei pastori, né quella proclamazione del Messia viene ricordata durante tutta la vita di Gesù. L'episodio si conclude in sé, come se fosse la celebrazione di un rito religioso da porre su un altro livello rispetto alla realtà vissuta. Il Vangelo secondo Matteo contiene un altro racconto del Natale con aspetti del rito pastorale: la fuga della Sacra Famiglia e la strage degli innocenti; episodi che riportano alla mente la fuga degli ebrei dall’Egitto dopo la strage dei bambini egiziani. Sono racconti che richiamano elementi dello stesso rituale archetipico dei pastori: la nascita al plenilunio, il sacrificio e la fuga.

6 - Alcune feste musulmane L'anno religioso musulmano di dodici mesi lunari non concorda con quello solare, perché Maometto ha abolito il tredicesimo mese intercalare degli arabi preislamici. Il primo giorno del mese comincia dall'effettiva apparizione serale della luna nuova. Dato che il crescente lunare a 24 ore dalla congiunzione col sole è molto sottile e non facilmente visibile, il primo del mese musulmano corrisponde quasi sempre a due giorni di età della luna.
Le principali feste islamiche riguardano Maometto e il sacrificio animale. Vedremo però che il sacrificio deriva da un rito preislamico del tipo del sacrificio e fuga, dedicato a un dio diverso da Allah. Gli unici anni della vita di Maometto abbastanza attendibili sono quelli della migrazione dalla Mecca a Medina nel 622 e della morte nel 632. Il giorno della morte è indicato dai più il 13 del mese di rabi I, e da altri il 12 dello stesso mese. La tradizione prevalente stabilisce la nascita (intorno al 570) il 12 del mese di rabi I, mentre era primavera, alla sesta ora della notte (14). Si tratta di date simboliche inserite nel processo di esaltazione della figura di Maometto, che in alcune sette rasenta la divinizzazione. La specificazione della nascita in primavera intende probabilmente la vicinanza dell’equinozio, quando la sesta ora dopo il tramonto è a metà della notte, coincidenza evidentemente simbolica. Inoltre, la tradizione prevalente fissa la nascita e la morte quasi nello stesso giorno, in modo che a Maometto sono attribuiti simbolicamente un numero intero di anni lunari. Il giorno 12 della nascita, secondo quanto detto sopra, corrisponde al 13° o 14° giorno della luna, che mediamente sono all’inizio dell'intervallo del plenilunio apprezzabile a occhio nudo. Astronomicamente, il plenilunio si forma da 13,73 a 15,80 giorni dopo la congiunzione. Una migliore coincidenza della nascita col plenilunio avrebbe richiesto il 13 del mese musulmano, ma probabilmente sarebbe stato preferito il 12 per il significato fausto di questo numero. È probabile poi che la morte sia fissata al 13 del mese, considerato giorno infausto. Maometto stesso abolì il 13° mese preislamico considerandolo una falsità. Tuttavia, in India si commemora la morte di Maometto il 12. Forse, su influenza dell'induismo, l'evento della morte non è considerato negativamente in quanto liberazione dello spirito.
La seconda grande festa legata a Maometto ricorda la sua ascensione, fissata dalla tradizione al 621, accennata in un versetto del Corano (XVII, 1): “Gloria a colui che rapì di notte il suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo per mostrargli dei Nostri Segni.” L'esegesi islamica comune - ma arricchita da descrizioni mitologiche - ritiene che Maometto guidato dall'angelo Gabriele sia andato montando sul destriero al-Buraq dal Tempio Santo della Ka'ba al Tempio Ultimo (lontano), che sembra essere una dimora celeste e che tuttavia è stato identificato con Gerusalemme. Da Gerusalemme sarebbe iniziata l'ascensione attraverso i sette cieli, dove Maometto riconosce, tra gli altri, Adamo in mezzo a due schiere di anime predestinate al paradiso e all'inferno. La festa dell'ascensione ricorre il 27 del mese di Radjab, corrispondente all'età della luna di 28 o 29 giorni, cioè all'inizio del novilunio. La scelta di questa data per ricordare la visione dell'Aldilà sarebbe stata influenzata da concezioni che vedono nel novilunio il simbolo dei morti, come per esempio nel mito di Osiride che si trasforma in re dei morti al novilunio (15).
Anche nell'Islam è praticato il sacrificio animale. Questa festa comincia il 10 del mese dhu'lhiddjja e continua fino al 13 del mese, quindi fino all’inizio del plenilunio. La festa è particolarmente solenne e ritualmente complessa nel pellegrinaggio alla Mecca. Il pellegrino, approssimandosi alla città sacra, partecipa a soste di preghiera alternate a corse rituali notturne. Dopo hanno luogo i sacrifici di cammelli, bovini o ovini, e si compie la circumambulazione della Ka'ba. Seguono i tre giorni di festeggiamenti in cui viene distribuita la carne. Il rito è associato al sacrificio che Abramo avrebbe dovuto fare del proprio figlio. Gli elementi del rito risalgano all'antichità, cioè ai sacrifici di cammelli che le tribù arabe facevano a un dio (16) immanente preislamico, soppresso da Maometto. I riti preislamici comprendenti il sacrificio di animali non sono rivolti al Dio trascendente Allah. Le loro caratteristiche sono quelle del sacrificio e fuga durante un plenilunio, accompagnati da atti apotropaici, come il lancio di sassi, paragonabili a quelli accennati a proposito dei Lupercali.



Note

1) Henri Stern, Le calendrier de 354, Paris 1953, p. 56 nota 5.
2) Citato da Magini, Leonardo, Il calendario romuleo e i suoi rapporti con i fenomeni astronomici, in «Atti del II congresso di archeoastronomia. sett. 2002». Società italiana di Archeoastronomia.
3) Samuel, Alan E., Greek and Roman Chronology, München 1972, p. 168, nota 1.
4) Gaspani, Adriano, Externsteine, santuario naturale degli antichi Germani (parte seconda), in «Terra Insubre», 44 (2007).
5) Frison, Carlo, Il vecchio tempio patavino di Giunone, in «Padova e il suo territorio», n. 29, 1991.
Id. Tracce di astronomia paleoveneta, in «Padova e il suo territorio», n. 71, 1998.
6) Mastrocinque, Attilio, Romolo, Este (Padova): Zielo, 1993, p. 149.
7) Nilsson, Martin P., Primitive time-reckoning, Lund 1920, p. 338.
8) Duval, Y.M., Des Lupercales de Constantinople aux Lupercales de Rome, in «Revue des Études latines», LV, 1977, p. 229. 9) Duval, cit., p. 236.
10) Frison, Carlo, La previsione delle eclissi prima del saros, in «Astronomia», UAI, n. 2, 1999.
11) Bettenzoli, Giuseppe La tradizione del shabbat, in «Henoc», IV, 1982.
12) Parker, Richard A., The Calendars of ancient Egypt, Chigago, 1950.
13) Kellner, Karl Adam Heinrich, L'anno ecclesiastico e le feste dei santi, Roma 1906, p. 129.
14) Effendi, Mahmoud, Mémoire sur le calendrier arabe etc., Paris 1858, p. 34.
15) Parker, cit., pp. 59 - 60.
16) Fahd, Toufic, L'Islamismo, Roma-Bari, Laterza, 1991 pp. 175-177.



*) Saggio inserito in Nel nome di Elohim e di Yahweh e dello Spirito Santo. Quattro saggi sull'origine dell'idea della Trinità e sulla critica della religione., CLEUP, Padova, 2012.

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