Se la curiosità avesse spinto qualche primitivo a contare le costole di uno scimpanzé
(o un gorilla), avrebbe trovato che ne hanno un paio in più dell'uomo, 13 invece
di 12. Il racconto biblico della formazione di Eva da una costola, oltre a contenere
aspetti mitologici e culturali di estrema arcaicità, ha anche questo richiamo alle
transizioni evolutive avvenute con diminuzione del numero di costole.
È necessario distinguere tra la teoria evoluzionista della formazione del corpo
e la spiritualità dell'uomo, sua prerogativa esclusiva tra tutte le creature.
La costola
L'anatomia comparata offre, inaspettatamente, la chiave per la comprensione del
racconto del giardino di Eden. La perdita della costola c'è stata veramente in quanto
l'uomo, che ne ha dodici, discende da un ominide che ne aveva tredici. Si può fare
questa affermazione, nonostante non siano stati trovati fossili con tredici costole,
in base a delle prove indirette.
Nell'evoluzione degli animali si è verificato generalmente una diminuzione del
numero delle costole. Nelle condizioni primitive le costole erano attaccate a tutte
le vertebre; questo è ancora vero in alcuni rettili (per esempio nei serpenti), ma nei
mammiferi solo le vertebre dorsali hanno le costole. Anche nell'evoluzione dei mammiferi
è continuata la diminuzione delle costole, almeno per diverse specie. La storia
evolutiva è poco nota perché di solito di uno scheletro si trovano pochi ossi, e
mancano diversi "anelli di congiunzione". Ma per esempio si può parlare di diminuzione
delle costole per la balena, che ne ha nove, dato che nelle ricostruzioni ipotetiche
dei rettili progenitori dei mammiferi ne vengono supposte una ventina nella regione
toracico-lombare, e altre in quella cervicale(1). Perciò, considerando che tra le scimmie
più vicine all'uomo, lo scimpanzé e il gibbone hanno tredici costole, il gorilla può
averne dodici o tredici(2) e l'orango ne ha dodici, è possibile che l'antenato comune
all'uomo e alle scimmie antropomorfe abbia avuto tredici costole.
Inoltre è interessante notare che il numero delle costole è variabile anche
nell'ambito delle singole specie attuali. L'uomo, che normalmente ne ha dodici, in
certi casi ne ha un numero diverso. Così si può avere la dorsalizzazione di una vertebra
lombare quando questa ha acquistato un paio di costole libere, oppure un paio di costole
possono apparire nell'ultima vertebra cervicale dorsalizzata(3).
Si tratta di variazioni arcaizzanti perché gli animali preistorici possedevano
costole nelle regioni cervicale e lombare. Naturalmente la biblica perdita di una
costole deve essere intesa come perdita di un paio di esse. Questa interpretazione è stata
accolta da Jérôme Lejeune, che nel saggio "Biologie, conscience et foi", (apparso
in "Rivista di Biologia", vol. 76 - 1983. n. 3) ha notato che "costola"
in ebraico è al duale, sicché a Adamo sarebbe stato tolto un paio di costole.
Ora, per interpretare la Bibbia in questa direzione, bisogna innanzi tutto intendere
che la narrazione del giardino di Eden riguarda avvenimenti succedutisi per più
generazioni(4).
Il motivo della formazione della donna è così esposto: "Disse poi Jahweh-Elohìm:
non è bene che l'uomo sia solo, Io gli farò un aiuto simile a lui" (Gn. 2, 18); e
"Così l'uomo impose il nome a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a
tutte le bestie selvatiche. Ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile"
(Gn. 2,20). Questi versetti lascerebbero intendere un accoppiamento con gli animali.
Si può supporre che l'essere quasi umano con tredici costole che ha preceduto l'uomo
moderno nell'evoluzione fosse già abbastanza intelligente per accorgersi che
l'accoppiamento è una pratica comune a tutti gli animali, e doveva considerare la
sessualità come espressione di dominio sia entro la propria specie sia sugli animali.
Nella remota preistoria prima si affermò l'uomo, intelligente ma brutale, poi, col
sorgere dei sentimenti, si considerò la donna come unica degna compagna: questa è
la formazione ideale della donna avvenuta nella mente umana, che il mito ha trasformato
in una formazione reale.
Si può quindi immaginare un processo semplice di formazione del racconto. Se la
curiosità avesse spinto qualche primitivo a contare le costole di uno scimpanzé
(o un gorilla) avrebbe trovato che ne hanno un paio in più dell'uomo. Il versetto
"l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile" (Gn. 2,20) lascia perplessi. È da
chiedersi se l' "aiuto" servisse solo a Adamo o anche alle generazioni future, e come
sarebbero nate le generazioni future se Adamo avesse trovato tra gli animali l'aiuto
che gli serviva. Così commenta M. Nordio "Vi potrebbe anche essere una recondita
polemica contro l'unione con animali, nota nell'ambiente pastorale, ma preferiamo
lasciarla ai commentatori che frugano la Bibbia in cerca dell'inaudito."(5) Per restare
in tema, è meno dubbia la condanna di un'altra aberrazione: quella dell'incesto.
"E per questo che l'uomo abbandona il padre suo e la madre sua e si congiunge con
la donna e divengono una carne sola" (Gn. 2,24). Tutti i versetti
Gn. 2,20-24 formerebbero la morale sessuale della famiglia, perché il già
citato Nordio commenta sul versetto 24: "E' interessante che, contrariamente all'uso,
si faccia menzione della madre quale elemento importante del clan che l'uomo abbandona
per la sua donna".
L'evoluzione spirituale dell'uomo è simboleggiata nella Bibbia da quella fisica della
perdita di una costola(6), e ciò suggerisce che avvennero contemporaneamente.
Secondo gli esegeti la creazione della donna da una costola dell'uomo esprime
la perfetta uguaglianza, per dignità, dell'uomo e della donna. Però il racconto
biblico non presenta un confronto a due tra uomo e donna, bensì presenta l'uomo che
nella ricerca di un aiuto rifiuta gli animali e sceglie la donna come uguale a se stesso.
La formazione della donna da un osso è assimilabile al mito greco di Deucalione e Pirra,
che ripopolarono la terra
dopo il Diluvio gettandosi le ossa della Madre Terra (cioè dei sassi) dietro le spalle.
Dai sassi gettati da
Deucalione sorsero uomini e da quelli gettati da Pirra donne.
A questo punto è da chiedersi come abbia potuto questa evoluzione, avvenuta in
un'epoca molto remota, essere tramandata fino al tempo di redazione della Bibbia(7).
Si deve però tener presente che il mito himalaiano dello Yeti è stato interpretato
come memoria della discendenza umana da esseri scimmieschi, quindi non sarebbe
eccezionale se questa idea ci fosse anche nella Bibbia. Anzi, vi si può trovare un
altro indizio là dove, si parla della esistenza dei giganti e dei figli di Dio:
"I figli di Elohìm videro che le figlie degli uomini erano belle e se ne presero per
mogli tutte quelle che più loro piacquero" (Gn. 6,2). Si può ipotizzare che si tratti
di sottospecie di aspetto quasi scimmiesco. Accanto viveva una sottospecie più evoluta:
l'uomo moderno. In questo senso può essere interpretato il racconto dei figli di Dio
che rapivano le figlie dell'uomo perché erano belle(8). La Genesi narra poi che la
malvagità degli uomini provocò l'ira di Dio, il quale col Diluvio distrusse l'umanità
a eccezione della famiglia di Noè. Il racconto va interpretato nel senso che
sottospecie meno evolute non riuscirono a fronteggiare il Diluvio, mentre quella più
evoluta si pose in salvo su imbarcazioni(9). Vedremo più avanti come tutto ciò è possibile.
Naturalmente l'osservazione della differenza di una costola presuppone la capacità
di contare, ma questa era già posseduta almeno nel paleolitico superiore. In
Cecoslovacchia è stato trovato un osso di lupo, risalente a circa 30.000 anni fa,
che presenta profondamente incise cinquantacinque intaccature. Queste sono disposte
in due serie: venticinque nella prima e trenta nella seconda; all'interno di
ciascuna serie le intaccature sono distribuite in gruppi di cinque. Si tratta di
una prova evidente che l'idea di numero è molto antica(10).
Il frutto proibito(11)
Nel mito del giardino di Eden ci sono due alberi dalle virtù particolari, quello
della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Solo dell'albero della
conoscenza il Signore aveva proibito di mangiare i frutti: "Tu puoi mangiare liberamente
di ogni albero del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non
devi mangiare" (Gn. 2, 16-17). Così è scritto prima che sia mangiato il frutto
proibito: "Ora, l'uomo e sua moglie erano tutt'e due nudi, ma non ne avevano
vergogna" (Gn. 2, 25). Mentre dopo che l'hanno mangiato è scritto: "Si aprirono
allora gli occhi a tutt'e due e s'avvidero che erano nudi; intrecciarono foglie
di fico e se ne fecero cinture" (Gn. 3, 7). È chiaro che qui si tratta di un processo
culturale, e cioè dell'acquisizione della consapevolezza da parte degli uomini della
loro nudità(12). Le cinture fanno pensare al perizoma in uso tra i popoli che ancora
oggi vivono come nell'età della pietra. E come progresso culturale va interpretata
la frase: "E Jahweh-Elohìm disse: "...nel giorno in cui tu ne mangerai, dovrai
certamente morire" (Gn. 2, 16), e cioè: mangiando il frutto acquisterete coscienza
della vostra mortalità.
È interessante notare che la Bibbia non afferma esplicitamente che l'uomo nel
giardino era immortale; l'immortalità era un'illusione e non una realtà. La conoscenza
del bene e del male deve essere intesa in senso fisico. Bene è semplicemente tutto
ciò che è favorevole alla vita, male è tutto ciò che provoca dolore e morte. Che i
primi uomini non riflettessero sulla morte, o che ritenessero se stessi immortali(13),
analogamente a quanto avviene nella incoscienza infantile, è deducibile dal fatto che,
secondo il racconto del giardino di Eden, l'uomo poteva nutrirsi coi frutti
dell'albero della vita, dato che Dio non glieli aveva espressamente vietati. L'uomo
divenne mortale una volta cacciato dal giardino, non potendosi più nutrire con quei
frutti(14), il cui effetto era cioè temporaneo. Ciò fa pensare che il mito indichi
una "pianta della salute". Questo suggerisce che anche l'albero della conoscenza deve
avere delle proprietà officinali: secondo il mito è il simbolo delle proprietà
curative o dannose di alcune piante. Significativo è il fatto, che sia stata Eva a
prendere l'iniziativa di cogliere il frutto: la scoperta delle proprietà botaniche
delle piante è stata fatta dalla donna, mentre l'uomo era prevalentemente cacciatore.
La tentazione è imputata al serpente perché gli antichi ritenevano questo animale
sapiente, attribuendogli la conoscenza del bene e del male. Aveva la conoscenza del
bene perché cambiando pelle la mantiene sempre giovane e fresca, sicché lo ritenevano
immortale, e aveva la conoscenza del male perché il suo morso è velenoso.
Classificazione degli ominidi in base all'etologia
La famiglia degli ominidi ha la singolare particolarità, tra tutti i primati, di
essere rappresentata attualmente da una sola specie: l'uomo. Tutte le altre specie
di ominidi si sono estinte nonostante fossero biologicamente e culturalmente progredite.
Per di più le razze umane attuali si differenziano tra loro per particolari minimi
e insignificanti, mentre altre razze con differenze notevoli dalle attuali si sono
estinte. In qualche caso potranno essere ipotizzate cause ambientali, ma ciò non è
sufficiente a giustificare l'estinzione di animali così progrediti, quando altri meno
dotati esistono tuttora. Se poi si constata che l'evoluzione degli ominidi è stata
molto più rapida di quella delle scimmie antropomorfe, si deve pensare che è intervenuta
in modo preponderante una nuova causa, non biologica ma psichica(15), di selezione.
Si deve supporre che l'elevato sviluppo psichico, quasi come un organo(16) che cresceva
in modo abnorme, sia stato causa determinante della selezione, avendo provocato
comportamenti contrari alla perpetuazione della specie. Il sorgere di desideri in
esseri privi di conoscenze e di un vero controllo della ragione può averli indotti
a comportamenti autodistruttivi, giudicabili dal nostro punto di vista delle follie,
come per esempio lanciarsi da una rupe per volare, stragi fra tribù o fra membri di
una stessa tribù(17), o trascurare la riproduzione della specie per accoppiamenti con
animali(18) ,soppressione dei figli da parte dei genitori(19), o inadatta dinamica del
rapporto madre-figlio(20).
Quindi, se tra tutti gli ominidi solo l'Homo sapiens è sopravvissuto, è
perché gli altri non possedevano la vitalità psichica atta alla perpetuazione della
specie. La classificazione degli ominidi perciò deve essere fatta in base a fattori
non solo biologici, ma anche psichici. Si può così distinguere nettamente tra gli ominidi
che non ebbero sufficiente vitalità psichica e quello unico che la possiede, e che
quindi unico può essere considerato come uomo(21).
L'abisso psichico che separa l'uomo dagli animali è insuperabile. Ogni condizione
di vita intermedia non è possibile perché quelle esistite in passato si sono estinte
avendo avuto caratteri autodistruttivi. Il ponte tra l'uomo e gli animali è crollato.
In altre parole, qui si contraddice l'opinione degli etologi (studiosi di psicologia
comparata degli animali e dell'uomo) secondo cui la differenza tra l'uomo e gli
animali è solo quantitativa e non qualitativa. Se gli ominidi che hanno preceduto
l'uomo moderno nell'evoluzione si sono estinti per cause psichiche e non ambientali
o strettamente biologiche, allora la differenza tra l'uomo e gli animali è anche
qualitativa.
Il superiore psichismo dell'Homo sapiens è dimostrato dai reperti archeologici.
Essi indicano una molteplicità di elementi, sia di strumenti di lavoro sia di
manifestazioni spirituali, tale da differenziarlo dagli altri ominidi. L'industria
litica del poleolitico superiore (epoca associata esclusivamente ai sapiens
nuovi. Inoltre il grande sviluppo dell'arte, l'utilizzazione dei vari oggetti per
scopi ornamentali, cultuali e magici, i vari tipi di sepoltura, assieme alla
molteplicità di strumenti di pietra e di osso rivelano nell'uomo del paleolitico
superiore l'insorgenza di nuove esigenze, strettamente legate a un grado di psichismo
evoluto rispetto a quello dei paleantropi (neandertaliani compresi).
Il diverso destino dei neandertaliani e dei sapiens è probabilmente
attribuibile a una importante differenza nella disposizione volumetrica del cervello.
Nell'Homo sapiens è sviluppata la zona frontale, diversamente dai neandertaliani
che hanno la fronte schiacciata e sviluppata invece la zona occipitale (quella posteriore).
L'ampliamento della regione frontale dei sapiens, che però non si è tradotto
in un aumento della capacità totale del cranio, corrisponde all'estensione delle
zone nervose legate direttamente alla coscienza lucida e alla riflessione, e coincide
con la diversificazione dello strumentario e con la comparsa delle prime manifestazioni
artistiche. I neandertaliani, avendo poco sviluppata la zona frontale del cervello
probabilmente difettavano di quelle attività psichiche che danno una motivazione
cosciente all'esistenza e il desiderio di perpetuarla nei discendenti.
II paleolitico nella Genesi
L'opinione più accreditata tra gli esegeti è che i primi capitoli della Genesi
corrispondano all'ambiente culturale delle civiltà mesopotamiche; mentre è poco
seguita (W.Schmidt e A. Bea) l'opinione che si debba retrocedere al paleolitico
superiore. Questo, nonostante la notevole armonia esistente tra etnologia e Bibbia,
per la ragione che l'autore sacro non poteva conoscere i reperti della preistoria
o dell'etnologia, né gli potevano essere giunti ricordi su quell'oscuro periodo
remotissimo(22).
Ebbene, il presente saggio intende portare tre nuovi argomenti paletnologici
a favore dell'ipotesi del paleolitico superiore e sostenere che la Bibbia (che
certamente non è un libro di scienze) è, con ogni probabilità, un documento che
attesta le condizioni dell'uomo nella preistoria.
1° argomento. Sia nella Bibbia che nei miti di altri popoli esiste una connessione
tra sapienza, serpente e donna. La sapienza non è altro che conoscenza del bene della
vita e del male della morte, attribuita al serpente per la sua immortalità mitica e
per il suo veleno. Ma anche la donna acquistò maggiori cognizioni quando scoprì
l'utilizzazione delle proprietà medicamentose e velenose delle piante: questo è il
significato del mito di Eva che coglie il frutto dell'albero della conoscenza del
bene e del male. Ci fu un tempo in cui l'uomo, essendo ancora in uno stato di
incoscienza infantile, non era consapevole della propria mortalità: come dire che
poteva mangiare i frutti dell'albero della vita. Poi ne acquistò coscienza, e la
attribuì a cause spirituali; e la donna, con la scoperta delle proprietà officinali
delle piante, deve aver avuto un ruolo importante nelle riflessioni dei primitivi
sulla morte. Ecco quindi che i dati etnologici concordano col racconto biblico.
2° argomento. I primitivi compiono abitualmente molte delle osservazioni cui si
fa ricorso per sostenere la derivazione degli uomini dagli animali. Si potrà quindi
ritenere che dalla constatazione che alcune scimmie hanno tredici costole, si è
intuito che l'uomo discenda da loro. Ma, si può anche pensare che la constatazione
sia stata fatta per confronto con ominidi con tredici costole piuttosto che con
scimmie. Purtroppo le costole sono ossi reperibilissimi e non esistono reperti fossili
che attestino in quale periodo del paleolitico è avvenuta la perdita della costola
nel ramo della famiglia degli ominidi.
La Bibbia suggerisce, oltre alla diversità del numero di costole, anche un
diverso comportamento per gli ominidi con tredici costole. Costoro dovevano
considerare le femmine come animali tra gli animali e usare di quelle come di questi.
Qui non si vuole ricostruire il processo mentale mediante il quale fu derivata dalla
perdita della costola la formazione della donna. Solo viene prospettata la possibilità
che si sia stabilita una connessione tra due fatti: la perdita della costola e
l'unicità per l'uomo della donna. Mentre l'uomo non ha che la donna per compagna,
gli ominidi con tredici costole non distinguevano tra donne e animali.
3° argomento. Lo studio dei fossili testimonia che dal ramo evolutivo degli
ominidi si sono staccate più linee laterali successivamente estintesi, come i
pitecantropi e i neandertaliani. Tali ominidi sono classificati nel genere Homo
in base alla forma dello scheletro, e senza tener conto (per ovvia mancanza di
testimonianze dirette) delle condizioni culturali. Ma dal punto di vista biblico
certe differenze culturali diventano essenziali se assumono l'aspetto morale. Non
possono essere posti sullo stesso piano il diretto antenato dell'uomo attuale e,
per esempio, l'uomo di Neanderthal, che non ha lasciato alcuna discendenza. La
benedizione di Dio è una numerosa posterità, per cui gli ominidi estinti sono
stati maledetti da Dio e cancellati dalla faccia della terra. Quando nella Bibbia
leggiamo: "Sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato" (Gn. 6, 7), dobbiamo
intendere che sono esistite realmente in passato delle popolazioni umane successivamente
estinte o in seguito a catastrofi naturali (per esempio alluvioni), o per
insufficiente vitalità psichica. Se consideriamo l'antico e diffuso mito dei giganti,
la genetica ci offre una significativa concordanza con la Bibbia. Sono noti i
successi ottenuti nella produzione, con particolari incroci, degli ibridi giganti
del grano turco o del pollo. Si tratta di un fenomeno definito vigore degli ibridi.
In questi termini sono spiegati anche quei casi in cui coloni europei hanno avuto,
da donne indigene di bassa statura, dei figli più alti di loro, come si è verificato
nell'episodio dell'ammutinamento del Bounty e nella colonizzazione del Sudafrica.
Se i giganti biblici sono il frutto di un incrocio geneticamente analogo, allora
si deve dedurre che i figli di Dio e i figli dell'uomo erano due
razze distinte, e che dal loro successivo incrocio sono nati i giganti. A loro volta
i giganti avrebbero avuto dei figli di statura anch'essa elevata, ma solo per poche
generazioni, ritornando in seguito a statura normale (ciò è spiegabile geneticamente).
Verrebbe così chiarito il significato del versetto (Gn. 6, 4): "Vi erano sulla terra
i giganti a quei tempi, e anche dopo". "E anche dopo" significa appunto che la
statura si mantenne elevata solo per alcune generazioni.
In effetti i paleontologi dividono le popolazioni umane vissute durante l'ultima
glaciazione nei due gruppi dei neantropi (Homo sapiens) e dei paleantropi
(neanderthaliani). Possono essere identificati in essi i "figli dell'uomo" (neantropi)
e i "figli di Dio" (paleantropi)? I paleantropi erano di statura relativamente bassa
e di forma massiccia: una corporatura adatta allo spazio periglaciale. Si sono estinti
per cause ignote nel corso dell'ultima glaciazione, durante la quale però ci sono
stati interstadi temperati con conseguenti inondazioni. È da identificare in esse
il Diluvio?
Alla loro estinzione forse hanno avuto parte attiva anche i neantropi che da
oriente si spingevano a occupare la loro area di diffusione. Il frutto del probabile
incrocio tra neandertaliani e Homo sapiens potrebbe aver originato il
mito dei "nefilìm" (i giganti). Non ci si deve però aspettare di trovare fossili di
statura gigantesca per suffragare il racconto biblico. Il termine ebraico "nefilìm"
è tradotto tradizionalmente con "giganti", ma i filologi non sanno specificare con
certezza il suo significato. Potrebbe significare "distruttori", uomini violenti o
uomini vigorosi capaci di imprese eccezionali.
Secondo la Genesi i figli di Dio presero per mogli le figlie dell'uomo perché
erano belle (Gn. 6, 2). Anche qua si può vedere un'altra coincidenza coi dati
antropologici. Le ricostruzioni dei neandertaliani ce li presentano sgraziati e coperti
di pelo, ai loro occhi le donne del gruppo dell'Homo sapiens dovevano apparire
particolarmente belle.
La storia dell'homo sapiens
Si è visto che la preistoria biblica può essere interamente interpretata nel
quadro della situazione culturale del paleolitico superiore. È un fatto notevole
che non vi siano nominate invenzioni, scoperte o manifestazioni spirituali proprie
delle epoche più recenti. Per esempio in Gn. 2, 11-12, è detto che nel giardino di
Eden c'era l'oro e l'onice (una pietra dura). Lo splendente color giallo dell'oro
e gli smaglianti colori delle pietre dure rendono questi oggetti facilmente
distinguibili, e dovevano suscitare ammirazione nei primitivi quando erano intenti
a cercare i ciottoli adatti alla fabbricazione dei loro attrezzi.
Così pure la collocazione a oriente del giardino di Eden (Gn. 2, 8) concorda con
la sede originaria, da situarsi in una regione tra l'Europa e l'Asia(23), dello
sviluppo dell'Homo sapiens moderno avvenuto forse 50 mila anni fa.
La conclusione che si può proporre è che la Genesi sia un accumulo di tradizioni
che iniziano con la stessa comparsa dei sapiens moderni. Benché non sia
ragionevole credere che tali tradizioni si siano mantenute integre e ben ordinate
nella successione degli avvenimenti, rimane il fatto che eventuali alterazioni non
intaccano il quadro culturale preistorico. Questo vale per il racconto del Diluvio
e per le genealogie.
Di alluvioni ce ne sono state tante, più o meno remote. Vari racconti di diverse
alluvioni possono essere stati fusi in uno solo. I versetti Gn. 6, 1-7 che sono messi
come prologo del racconto del diluvio, probabilmente si riferiscono, come detto nel
paragrafo precedente, alle alluvioni degli interstadi temperati dell'ultima glaciazione;
mentre la storia di Noè si riferirebbe a una alluvione più recente. Questa ipotesi
è consentita dal fatto che molti studiosi considerano i versetti Gn. 6, 1-7 come un
masso erratico della preistoria biblica. In origine dovevano essere una scrittura
indipendente dall'attuale contesto.
Sulle genealogie non si può fare affidamento, sia perché possono essere lacunose
(ma ciò non è una novità per la Bibbia), sia perché devono iniziare da epoche
relativamente recenti, in quanto presuppongono una attenzione per l'uomo come individuo
che era ignota alle collettività più primitive. Infatti Adàm è un nome collettivo
che solo in seguito è stato trasformato in quello del primo uomo.
La religione della preistoria
Il secondo racconto della creazione ha la particolarità di usare una apparente
tautologia, Jahweh-Elohìm, per indicare Dio: i due nomi infatti significano
entrambi Dio. Jahweh è il Dio degli ebrei, mentre Elohìm è l'Essere divino in genere.
Tuttavia non è mai stato sufficientemente chiarito il raro uso dei due nomi
accoppiati Jahweh-Elohìm.
Qui se ne propone una spiegazione in base all'etnologia, perché l'elevata
moralità del racconto biblico si ritrova presso i popoli più primitivi e non negli
amorali, o addirittura immorali, miti mesopotamici.
È stata avanzata l'ipotesi che in origine fosse usato solo il nome di Jahweh,
cui fu più tardi aggiunto quello di Elohìm(24). Accettando questa ipotesi notiamo che
il carattere pienamente antropomorfo di Jahweh rende possibile, in forma completamente
secolare, la seguente interpretazione.
Jahweh era il capo della tribù dei cherubini, dalla quale si separarono individui
che formarono una nuova tribù; la quale definì se stessa col nome di "figli di Adàm"
(figli dell'uomo), mentre indicò la vecchia tribù di quelli rimasti fedeli a Jahweh
col nome di "figli di Jahweh" (figli di Dio)(25). Nelle due tribù separate, per frequenti
incroci tra parenti si verificò un decadimento, per cui dal successivo incrocio dei
figli di Jahweh con le figlie di Adàm nacquero individui vigorosi (i 'giganti'). A
sostegno di questa interpretazione ci sono due motivi esegetici, oltre a quelli biologici.
1° - In Gn. 6, 2 è contenuta l'espressione "figli di Elohìm" e non "figli di Jahweh",
ma le due espressioni sono equivalenti a "figli di Dio".
2° - In Gn. 6, 2 è scritto: "Disse Jahweh: non durerà per sempre il mio spirito
nell'uomo, perché egli non è che carne, e i suoi giorni saranno di centoventi anni".
L'interpretazione di questo versetto è molto controversa(26), ma le difficoltà sarebbero
superate se esso fosse riferito agli ominidi in seguito estinti, ai quali l'autore sacro
nega ogni spiritualità quando dice che essi erano solo carne: lo spirito loro attribuito
è quello della vita animale, per questo hanno i giorni contati, sopravviveranno sulla
terra per altri centoventi anni, dopo i quali saranno travolti dal Diluvio.
Accettata l'origine preistorica dei primi capitoli della Genesi, si pone il problema
di quale fosse la religione in quei tempi. Secondo Gn. 4, 26 si incominciò presto nella
storia dell'umanità a invocare il nome di Jahweh, e potrebbe trattarsi veramente di un
culto molto antico(27).
È possibile che la memoria del capotribù Jahweh sia stata tramandata tra i figli
di Adàm finché, col passare delle generazioni, Esso fu identificato con Dio. L'etnologia
conferma questa ipotesi. In certe tribù l'Essere supremo è identificato col
capostipite(28), e la maggior parte dei popoli primitivi crede che anteriormente
l'Essere supremo abbia abitato tra gli uomini sulla terra, e che sia salito in cielo
per colpa degli uomini(29).
Che l'idea di Dio sia collegata all'idea del padre si deduce anche dai versetti
Gn. 4, 17-22, secondo i quali le arti e i mestieri furono trasmessi dagli inventori
ai figli e ai loro discendenti, diversamente dai miti antichi del vicino oriente, dove
le arti e i mestieri sono introdotti da divinità. Ora, le tradizioni orali che hanno
preceduto lo scritto biblico suggeriscono che alla base del testo biblico e di quelli
extrabiblici ci sia uno sfondo culturale comune. Quindi è probabile che i miti
parlassero originariamente di padri inventori, come la Bibbia, ma in seguito allo
sviluppo delle credenze di quei popoli i padri vennero trasformati in divinità.
Ma, se l'idea del padre è collegata con l'idea di Dio, ciò non significa che
quella di Dio sia derivata da quella del padre capostipite, mancando assolutamente
al padre gli attributi (onniscienza, onnipresenza, ecc.) che invece sono propri
dell'Essere supremo(30).
Ebbene, tenendo conto di tutte queste considerazioni, secondo la preistoria biblica
risulta evidente che la diversità dei nomi divini (Elohìm e Jahweh) è spiegabile con il
senso differente di questi nomi, e con l'uso loro che deve variare secondo le
particolarità che si vogliono esprimere.
Dai primi tre dei seguenti punti risulta che la vita spirituale di Adàm è in
relazione con Elohìm e non con Jahweh.
1° - Adàm è fatto a immagine e somiglianza di Elohìm e non di Jahweh (Gn. 1, 26-27).
Si tratta di immagine e somiglianza spirituali perché questa espressione compare nel
racconto di tradizione sacerdotale, che è eminentemente filosofica e aliena da
antropomorfismi.
2° - Adàm ha peccato contro Elohìm e non contro Jahweh, infatti in Gn. 3, 3-7, dove
è trattata la caduta, è nominato solo Elohìm.
3° - In Gn. 3, 22 è scritto: "E disse allora Jahweh-Elohìm: "Ecco l'uomo è diventato
come uno di noi, conoscendo il bene e il male!". Il termine di confronto è tra
l'uomo e gli Dei (Elohìm), mentre il confronto con Jahweh è escluso dal plurale(31).
Il plurale attribuisce la conoscenza del bene e del male (onniscienza) a Elohìm e
non a Jahweh.
L'azione di Jahweh invece è pienamente antropomorfa, come risulta dai seguenti
due punti:
4° - Secondo H. Kunkel, Jahweh nella più antica religione d'Israele non possedeva
l'onniscienza. Dai versetti in cui si parla di Caino che si allontana dalla presenza
di Jahweh (Gn. 4, 16), e di Jahweh che scende per vedere la città e la torre
(Gn. 11, 5) si deduce che Jahweh non possiede né l'onnipresenza né l'onniveggenza.
5° - Jahweh modella con l'argilla Adàm come se fosse un artigiano, gli inala l'alito
della vita animale ma non lo spirito(32), forma la donna (ma non è creazione),
passeggia nel giardino, chiude la porta dell'arca dietro a Noè, ogni Sua azione è
puramente materiale, per le Sue azioni è impiegato il verbo "fare" e mai il verbo
"creare".
Da quanto detto sopra si delinea il seguente sviluppo storico della religione degli ebrei.
Nella preistoria il culto era dedicato al capostipite divinizzato Jahweh, mentre
all'Essere supremo invisibile onnisciente e creatore Elohìm(33) era riservato scarso
o nessun culto, analogamente a quanto avviene nelle religioni dei primitivi nostri
contemporanei in cui l'Essere supremo ha scarso culto(34). Poiché in varie religioni
Dio si manifesta sulla terra attraverso una persona, si può pensare che Jahweh fosse
la manifestazione sulla terra di Elohìm. In seguito la materialità di Jahweh è stata
dimenticata, e i due nomi, con gli stessi attribuiti divini, sono diventati sinonimi
dell'unico Dio.
A favore dell'ipotesi che Jahweh sia un capostipite divinizzato asceso in cielo c'è
la constatazione che prima del Diluvio Jahweh abitava sulla terra, e che è salito in
cielo per la malvagità degli uomini antediluviani. Infatti è solo prima del Diluvio
che si parla di Jahweh che cammina sulla terra. Ma, soprattutto è interessante notare
il diverso modo di accogliere le offerte. Prima del Diluvio le offerte di Caino e
Abele sono "guardate" da Jahweh (Gn. 4, 4-5), ciò significa che Egli abitava sulla
terra, perché dal cielo non avrebbe potuto vederle, infatti non è detto che sia
disceso come invece è detto in Gn. 11,5 quando Jahweh discese per vedere la città e
la torre. Dopo il Diluvio, le offerte di Noè sono accolte odorando la fragranza degli
olocausti (Gn. 8, 20-21). Segno che gli uomini hanno iniziato a bruciare le offerte
affinchè Jahweh ne gradisca il profumo che sale al cielo: si tratta del primo versetto
da cui si può dedurre che Jahweh abita in cielo.
Lo stesso mito dell'ascesa di Dio in cielo a causa della malvagità degli uomini
si trova presso i popoli primitivi come è riferito sopra.
Tuttavia il primo culto del capostipite Jahweh (Gn. 4, 26) non è posto all'inizio
della storia religiosa, e in questo si può vedere un'altra coincidenza con l'etnologia,
perché W. Schmidt ha dimostrato che il culto degli antenati è posteriore nello
svolgimento religioso dell'umanità.
Il confronto della Genesi con le religioni dei popoli più primitivi permette di
interpretare un altro versetto. Presso gli aborigeni australiani accade che, quando
una madre sente per la prima volta agitarsi il bimbo nel ventre, si attribuisce una
paternità causale o creatrice alla potenza divina associata al luogo in cui il bambino
si è manifestato. Non tutti gli etnologi sono d'accordo nel dedurre da ciò che gli
australiani ignorino il ruolo svolto dall'uomo nel concepimento di un figlio. Alcuni
ritengono che per i primitivi l'uomo avrebbe una funzione complementare, mentre a un
terzo fattore, a una potenza divina, si deve la concezione del bambino(35).
Una situazione analoga presenta il versetto Gn. 4, 1: ">E l'uomo conobbe Eva,
sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: Ho formato un uomo con Jahweh".
In questa nascita compaiono come protagonisti Eva e Jahweh, mentre l'uomo (Adamo) è
messo in disparte(36). Eva attribuisce la concezione di Caino a Jahweh.
La suddetta distinzione tra Jahweh e Elohìm permette di spiegare perché nella
tradizione Jahwista si usino a volte i due nomi di Dio insieme e a volte singolarmente.
Lo Jahwista descrive il primo progresso culturale umano come intervento divino nella
storia, ma è estranea al suo carattere ogni asserzione teologica sulla natura di Dio.
Del tutto diverso è l'Elohista, la sua descrizione di Dio è filosofica e astratta, la
storia narrata da lui acquista un valore teologico. È evidente che la tradizione
originaria Jahwista del giardino di Eden è stata rielaborata dai Sapienti Elohisti,
i quali hanno introdotto il nome Elohìm nei versetti di carattere eminentemente o
esclusivamente spirituale, il nome Jahweh in quelli di carattere antropomorfo, e
Jahweh-Elohìm quando l'azione di Dio appare contemporaneamente antropomorfa e spirituale.
Per esempio in Gn. 3, 8-24, dove si parla di Jahweh-Elohìm, è Jahweh che compie le
azioni antropomorfe di passeggiare e di chiamare Adàm (il "dove sei?" di Gn. 3, 9 è in
contraddizione con l'onniscienza di Elohìm, mentre è compatibile con la natura di
Jahweh), ma è Elohìm il termine di confronto spirituale con l'uomo (cfr. sopra i punti
3° e 4°).
L'originario racconto dell'acquisizione della conoscenza delle proprietà officinali
delle piante, dopo la rielaborazione teologica operata dai Sapienti Elohisti ha
acquistato il significato spirituale dell'ambizione dell'uomo di diventare come Dio.
Come è stato detto all'inizio, in questa ipotesi si è negato il significato
spirituale (angeli) all'espressione "figli di Elohìm": in realtà si tratta di uomini
preistorici estinti, come pure i cherubini. Qui probabilmente il racconto originario
doveva parlare di "figli di Jahweh", trattandosi di un versetto della tradizione Jahwista.
La sostituzione di Jahweh con Elohìm sarebbe avvenuta per farli apparire come spiriti
quando si formò dal ricordo di loro l'idea di esseri intermedi tra l'uomo e Dio,
esseri con caratteristiche dapprima anche umane, e in seguito solo spirituali. Tale
spiritualizzazione è stata possibile perché quegli uomini erano scomparsi. Forse
l'espressione "figli di Elohìm" riferita agli uomini preistorici ha proprio lo scopo
di escluderli dalle genealogie dei "figli di Adàm", se si fosse parlato di "figli di
Jahweh" questo scopo non sarebbe stato raggiunto perché anche Adàm discendeva da Jahweh.
È bene chiarire infine che l'identificazione di Jahweh col capostipite non è
irreligiosa. Ancora oggi diciamo "Cielo" per riferirci a Dio, ben sapendo che simile
termine non esprime la spiritualità della Divinità. Si usano parole spesso inadatte,
materiali, per parlare dei propri sentimenti, per cui è comprensibile che i figli di
Adàm usassero la denominazione del capostipite nelle azioni di concreto intervento
divino in terra, così come si usa indicare Dio col nome di "Signore".
Nessun dubbio può esistere sulla spiritualità di Elohìm. Nella Genesi Egli è posto
in relazione con la morte, e noi sappiamo che i primitivi ritenevano che la morte fosse
provocata dagli spiriti (cfr. nota 13). Quindi la concezione di Elohìm, in quanto
spirito che ha reso l'uomo mortale, è tanto antica quanto antica è la concezione della
mortalità umana.
Il mito delle razze
La comparazione dei miti di molti popoli ha accertato che erano diffuse le
credenze in una remota età dell'oro, e in diverse popolazioni umane anteriori distrutte
dagli dèi. Le descrizioni più organiche pervenuteci di questi miti si trovano nella
Genesi e nel poema di Esiodo "Le opere e i giorni", per cui esse meglio di altre
si prestano a un confronto sistematico.
Esiodo racconta la storia di cinque diverse razze di uomini(37). Le prime quattro
sono apparse sulla terra e poi scomparse prima dell'arrivo dell'umanità attuale. Per
ciascuna razza Esiodo indica quale sia stata la vita quaggiù e che cosa le sia accaduto
una volta abbandonata la luce del sole. Esse sono: 1° la razza d'oro, 2° la razza d'argento,
3° la razza di bronzo, 4° la razza degli eroi, 5° la razza di ferro.
Già nel numero cinque si può vedere una coincidenza con la Genesi, perché
anch'essa parla di cinque (possiamo chiamarle) razze, e cioè: 1° la prima razza è
rappresentata da Adamo (nome collettivo) nel giardino di Eden, 2° i figli di Elohìm,
3° i nefilìm (giganti), 4° i cherubini, 5° la discendenza di Adamo.
L'ordine di successione delle razze bibliche è modificato rispetto a quello del
testo per rendere possibile il confronto col racconto di Esiodo, ma questa discordanza
perde importanza in considerazione di tutte le seguenti analogie.
1° - Gli uomini d'oro vivono privi di preoccupazioni e in pace. Liberi dalla vecchiaia
e da ogni male, godono le loro feste col corpo sempre giovane. Non conoscono la fatica
perché la terra produce per loro spontaneamente beni innumerevoli. In terra vivono
come dèi. Muoiono come sopraffatti dal sonno. Nell'aldilà diventano geni sovraterreni
cui viene tributato onore regale.
In queste caratteristiche ritroviamo la descrizione della vita di Adamo nel
giardino di Eden. Egli non doveva lavorare. Viveva in pace prossimo alla Maestà divina.
2° - Gli uomini d'argento sono di una folle e smisurata empietà. Vivono tra ogni
sorta di sofferenza per la loro follia. Non possono frenare la reciproca e smisurata
sete di dominio. La loro empietà si esercita sul terreno religioso. Rifiutano di
sacrificare agli dèi olimpici, né vogliono riconoscere la sovranità di Zeus. Per
questo vengono sterminati dalla collera di Zeus. Dopo la morte diventano dèmoni
infraterrestri.
Questa descrizione sembra riflettere la vita corrotta e la fine dei figli di
Elohìm, sterminati da Jahweh per la loro malvagità.
3° - Gli uomini di bronzo sono caratterizzati esclusivamente dal loro comportamento
guerresco. Non fanno niente altro che la guerra. Non si allude per loro all'esercizio
della giustizia (sentenze diritte o storte), né al culto degli dèi (pietà o empietà).
La loro morte è conforme alla loro vita. Cadono in guerra uccisi gli uni dagli altri.
Non hanno diritto a alcun onore; per spaventosi che siano, sprofondano nell'anonimato
della morte. Le poche parole con cui la Genesi descrive i nefilìm, uomini vigorosi e
famosi per le loro imprese, sono sufficienti per identificarli con gli uomini di bronzo.
Dei nefilìm si perpetua il ricordo delle loro imprese, ma non hanno nessun destino
nell'aldilà. La loro memoria non viene associata all'esistenza degli angeli come
avviene per i figli di Elohìm e i cherubini. Per i nefilìm e per gli uomini di bronzo
la morte è la fine di tutto.
4° - La razza degli eroi è l'incarnazione del guerriero giusto, fedele servitore
dell'ordine divino. Per questo Zeus, dopo la loro morte, trasporta gli eroi,
nell'isola dei Beati dove conducono eternamente una vita simile a quella degli dèi.
A loro possono essere paragonati i cherubini, i giusti servitori di Jahweh posti a
guardia del giardino di Eden.
5° - Infine gli uomini di ferro, che corrispondono, come i discendenti di Adamo,
all'umanità attuale. Per gli uni e per gli altri il bene e il male sono mescolati.
La descrizione nei due racconti delle condizioni umane non può che corrispondere.
Le numerose analogie che i due miti presentano testimoniano una origine comune
delle tradizioni sulle razze scomparse, tradizioni sviluppate però secondo l'indole
propria di ciascun popolo. Ma per mezzo della comparazione tra Genesi e preistoria,
come si è visto sopra, si può avanzare l'ipotesi che le razze di Esiodo, i cherubini,
i figli di Elohìm, i nefilìm, i karibi babilonesi, i servi alati assiri e lo Yeti
(cfr. nota 12) hanno un'origine comune identificabile in una realtà storica: gli estinti
predecessori dell'Homo sapiens.
Infine si osserva che le cause della scomparsa degli uomini d'argento e di bronzo
coincidono, almeno in parte, con quelle ipotizzate per l'estinzione di paleantropi
nel capitolo intitolato "Classificazione degli ominidi in base all'etologia".
L'origine dell'idea di Dio
L'etnologia non è in grado di spiegare l'origine dell'idea di Dio, però ha permesso
di concludere che presso tutti i popoli, primitivi o progrediti, l'Essere supremo è in
qualche modo identificato o situato nel cielo (R. Pettazzoni). Non può essere un caso
fortuito che in tutte le religioni vi sia una connessione tra Dio e il cielo. Una simile
credenza si può immaginare che derivi da una comune tradizione paleolitica, esistente
nel nucleo originario dell'umanità, ma tale ipotesi non è confermabile dall'etnologia.
Rimane allora da considerare la possibilità che ci siano delle ragioni intrinseche,
inerenti al pensiero umano, e quindi deducibili anche da quello scientifico e filosofico
moderno, che collegano l'idea di Dio col cielo.
Non solo le tradizioni, fin dai tempi preistorici, identificano Dio con lo spazio
e entrambi con la luce, ma anche filosofi si sono espressi in questo modo. Per Newton lo
spazio assoluto è il sensorio di Dio. Per Archimede Dio è il sommo geometra (nel senso
che la geometria è lo studio dello spazio). Nel giudaismo è frequente l'associazione tra
Dio e spazio. E poiché lo spazio vuoto è il nulla, Dio è identificato anche col nulla.
Così Angelo Silesio (XVI secolo) diceva che Dio è un puro nulla.
La connessione semantica che filosofi e scienziati accettano tra Dio e spazio
permette di evitare ogni soggettivismo, prendendo in considerazione quanto la fisica
e la matematica dicono sullo spazio. La teoria della relatività generale afferma che
lo spazio vuoto non esiste. Ciò significa che togliendo la materia non rimane
assolutamente nulla, neanche uno spazio topologico matematico che abbia l'unica proprietà
dell'estensione. Alla stessa conclusione si arriva da considerazioni sulla matematica,
perché la mente, pur essendo in grado di concepire uno spazio vuoto, non riesce
definirlo nemmeno attraverso la pura idealità matematica. Infatti la matematica non
è una struttura unica tutta logica, ma un insieme di sistemi distinti uno dall'altro,
cosicché non è possibile giustificare la matematica classica su basi indubitabili (K. Goedel).
Lo spazio matematico rimane un presupposto che proviene direttamente dall'intuizione e come
tale è indipendente tanto dall'esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione logica (H. Poincaré).
In primo luogo la matematica è indipendente dall'esperienza sensoriale perché i
suoi enti astratti non corrispondono a niente di concreto in natura, né sono necessari
per le applicazioni pratiche dove sono sufficienti valori approssimati.
In secondo luogo la matematica è indipendente dalla strutturazione logica in quanto
è fondata su assiomi di carattere esistenziale, come il principio dell'infinito, che
trascendono da ogni norma di verità logica.
Perciò lo spazio privo di materia, la cui esistenza è concepita intuitivamente,
non è definibile attraverso enti astratti matematici logici e di validità assoluta.
Quindi dello spazio topologico matematico si ammette l'esistenza pur non potendo definirlo,
analogamente a come esistente e non definibile è concepito Dio.
La conclusione deducibile è che anche nella concezione moderna della matematica è
mantenibile l'antica associazione tra Dio e spazio, per cui gli enti astratti,
indipendentemente dalla loro definizione intuitiva euclidea o assiomatica moderna,
devono avere origine da processi mentali simili a quelli che hanno originato l'idea di Dio.
Consideriamo allora un esempio di come sono sorte le astrazioni matematiche. È
nota la costernazione in cui precipitarono i pitagorici quando scoprirono
l'incommensurabilità tra la diagonale e il lato di un quadrato; un risultato per loro
così sconvolgente che vietarono ai discepoli, benché inutilmente, di diffonderne la
notizia. I rapporti tra grandezze incommensurabili ponevano i filosofi greci di fronte
all'angosciosa idea del nulla, non esistendo numeri razionali che ne esprimano il valore.
Ma dalla concezione del nulla è scaturita, mediante un atto creativo, l'affermazione
dell'esistenza dei numeri irrazionali, enti numerici non corrispondenti a nulla di concreto
ma che pure appaiono indispensabili all'intelletto umano.
Ebbene, tutta la matematica è fondata su atti creativi affermanti l'esistenza di
enti astratti. Così avviene nel caso di quella nullità che è il punto geometrico, così
avviene nella considerazione dello zero come numero esistente, e così avviene nelle
dimostrazioni di carattere esistenziale in cui il postulato della continuità assicura
l'inesistenza di vuoti. Tali atti creativi intervengono quando il matematico si trova
di fronte alla concezione del nulla. Non vi è alcun fondamento, né di pura logica né
di necessità pratica, per l'esistenza degli enti matematici, bensì il loro "essere" è
creato dall'angoscia che provoca l'idea del nulla.
Per la filosofia esistenzialista l'angoscia è un sentimento di frustrazione totale
in cui appare all'uomo l'ambiguità della sua esistenza sospesa tra l'essere e il nulla.
Ma, proprio dall'esperienza complementare del nulla nasce la comprensione del senso
dell'esistenza. Perciò, nella matematica è stato dall'esperienza del nulla (non esistenza
di un rapporto razionale tra grandezze incommensurabili) che è derivata l'affermazione
dell'esistenza dei numeri irrazionali.
Le considerazioni esposte presentano un parallelismo tra l'idealismo matematico e
quello religioso. La matematica studia uno spazio ideale, e lo spazio è una immagine di
Dio. L'esistenza degli enti matematici è stata concepita in seguito all'esperienza del
nulla, e nella teologia negativa Dio è la quintessenza del nulla(38). Quindi se
l'origine dell'idea di esistenza risiede nell'esperienza del nulla, ciò deve verificarsi
anche nell'origine dell'idea di Dio. Di conseguenza chiedersi quale sia l'origine
della idea di Dio significa chiedersi che cosa può provocare anche nell'uomo più
primitivo il sorgere dell'idea del nulla(39).
Per rispondere alla domanda sopra formulata consideriamo l'opinione di Pettazzoni
sugli attributi degli Esseri supremi. Secondo Pettazzoni esiste un dualismo tipologico
di Esseri supremi onniscienti e Esseri supremi creatori(40). L'attributo della
creatività corrisponde a una esperienza religiosa che, nei miti delle origini in genere
e della creazione in specie, è espressa da una elementare angoscia esistenziale
(il nulla dopo la morte). Ciò significa che la creatività divina è associata
all'angoscia provocata dall'idea del nulla.
L'attributo dell'onniscienza corrisponde ad un'esperienza religiosa nella quale
sul sentimento della precaria condizione umana trema l'ombra di un'altra angoscia,
il senso di una diffusa immanente presenza che incombe sull'uomo in ogni luogo e in
ogni momento, senza tregua e senza scampo, di uno sguardo cui nulla sfugge e cui nessuno
può sottrarsi. È questa esperienza che presso gli Ewe si esprime nella sentenza che
"dove è il cielo, ivi è Dio". E questa esperienza (continua Pettazzoni) è stata
descritta anche da uomini come Cechov, Pascal e Kant in riferimento alla contemplazione
del cielo.
Il suddetto dualismo negli attributi divini, secondo Pettazzoni, si lascia
difficilmente costringere entro lo schema obbligato dell'idea monoteista di Dio. Ma,
qui bisogna osservare che non si tratta di dualismo, perché le due angosce di cui
parla Pettazzoni sono entrambe provocate dalla concezione del nulla, e quindi si
risolvono entrambe nella creatività. Infatti, presso i primitivi l'idea del nulla è
manifestata dall'orrore per lo spazio vuoto, perciò anche la stupita contemplazione
dell'immenso spazio vuoto del cielo ispira la concezione del nulla. Ne segue che
l'idea degli Esseri supremi, sia onniscienti sia creatori, ha la comune origine nella
concezione del nulla.
È assurdo pensare che il nulla concepito attraverso l'angoscia esistenziale possa
essere diverso dal nulla concepito attraverso l'immaginazione dello spazio vuoto,
benché possa dirsi che la concezione dello spazio vuoto, implicando l'annullamento
di tutto e quindi anche di se stessi, comprenda in se anche l'angoscia esistenziale.
Perciò viene a cadere l'obiezione di Pettazzoni al monoteismo primordiale. Dio,
fin da quando è stato concepito inizialmente, è immaginato nel cielo perché il cielo
ispira l'idea del nulla. E dalla uguaglianza concettuale tra il nulla e lo spazio
vuoto deriva la connessione semantica tra Dio e spazio. Tale connessione è congeniale
solo a una religione monoteista e è estranea a qualsiasi forma di politeismo(41); per
cui si può concludere che l'idea di Dio ha un carattere originario monoteista, così
come è nella Bibbia.
Poiché l'ipotesi del monoteismo primordiale trova appoggio nel pensiero filosofia)
e scientifico, non rimane che da vedere come si sia ve-rificato il passaggio dal
monoteismo al politeismo. In molte società primitive Dio è concepito sia come l'uno
sia come i molti. E analogamente il babilonese Ilani(42) e l'ebraico Elohìm sono
plurali ma indicano una sola Divnità.
Nelle società primitive Dio è. concepito come l'uno in quanto pensato in relazione
a tutti gli uomini o all'intera società; mentre è concepito come i molti in quanto
pensato nella forma di una varietà di spiriti posti in relazione a ogni diverso
aspetto della struttura sociale(43). Quando dalle società primitive si evolsero le
civiltà superiori, la struttura unitaria della società si frammentò, e si formarono
particolarità complesse e articolate dovute alle diverse esperienze e bisogni dei
suoi membri, secondo la posizione sociale e la specializzazione professionale di
ciascuno. Sicché ogni gruppo sociale (contadino, artigiano, guerriero o mercante)
sviluppò in forma autonoma un culto e una mitologia di propri spiriti o dèi, in modo
che si formò una religione politeista rispecchiante la complessità della struttura
sociale.
La società primitiva unitaria non impone differenze tra i suoi membri; i molti
spiriti, anche se ognuno di loro è attinente a qualche particolarità, interessano
tutti perché ognuno partecipa a tutte le forme della vita sociale. Diversamente nelle
civiltà superiori ogni gruppo sociale è autonomo e sviluppa propri miti che non
riguardano direttamente gli altri gruppi sociali. La frammentazione della società
avrebbe così avuto come conseguenza la frammentazione di Dio in più dèi. Questo
spiegherebbe perché il politeismo è sorto solo nelle civiltà superiori.
Note
(*) Stampato da "Arti Poligrafiche Editoriali Venete", Abano Terme, 1980. Rivisto
per la pubblicazione in questo sito.
(1) G. Dal Piaz, R. Malaroda, pag. 149.
(2) P. Omodeo, pag. 619. Alcuni autori (per esempio C. Corrain, pag. 353) riportano
per le costole del gorilla solo il numero tredici.
(3) A. Pensa, G. Favero, pag. 90.
(4) L'ebraico " Adàm " significa uomo, è un nome collettivo che è stato trasformato
successivamente in quello del primo uomo.
(5) M. Nordio, pag. 98.
(6) Il termine ebraico tradotto con "costola" non è polivalente; indica solo la
costola e non altre parti del corpo. Nel mito sumerico di Enki e Ninhursag, per guarire
Enki dai suoi otto mali, Ninhursag gli fa partorire altrettante divinità guaritrici.
Per la malattia alla costola gli fa nascere la dea Ninti, regina dei mesi o dea della
vita (cfr. J.B. Pritchard, pagine 37, 40, 41). Non può essere un caso che la Bibbia
parli solo della costola tra gli otto organi di Enki, perché è proprio la costola che
ha una corrispondenza concreta nella biologia. Da ciò si deduce che la Bibbia non è una
riduzione razionale di miti mesopotamici. I miti mesopotamici si innestano nello
sfondo culturale comune del vicino oriente antico, ma hanno avuto uno sviluppo
fantasioso in base a credenze proprie che regolavano i vari racconti e li hanno quindi
modificati.
(7) È vero però che i riti e le tradizioni orali possono tramandarsi per molti
millenni. Per esempio, è durato ventimila anni l'uso, nei riti funebri preistorici,
di cospargere con l'ocra rossa gli ossi dei morti (cfr. V.G. Childe, pag. 38).
(8) Agli scrittori biblici è riconosciuta una notevole affidabilità storica, sebbene
alcuni miti siano presenti anche nella Bibbia (cfr. J.A. Soggin, pag. 79 segg.). Ma si
tratta sempre veramente di miti? E poi, che rapporto c'è tra il mito e la realtà? È
possibile che la credibilità storica della tradizione biblica sia riconoscibile anche
nei racconti della creazione e del Diluvio? La spiegazione anatomica della perdita della
costola, e l'identificazione dei "figli di Dio" con degli ominidi, lo consente. Dal
connubio dei figli di Dio con le figlie dell'uomo sarebbero nati i giganti. La genetica
definisce come vigore degli ibridi, fenomeni in cui l'ibrido, ottenuto dall'incrocio
di due linee inincrociate di individui, ha dimensioni maggiori degli individui genitori
(cfr. C. Auerbach, pagine 173 segg.).
(9) Il Diluvio è stato identificato con le periodiche inondazioni della Mesopotamia, o
con l'inizio del periodo postglaciale; ma dobbiamo considerare anche le inondazioni
verificatesi in epoche più antiche come i periodi interglaciali e gli interstadi temperati
delle glaciazioni. Questo consente di far risalire il Diluvio al tempo in cui il gruppo
dell'Homo sapiens non era ancora diffuso su tutta la terra, e confermerebbe
la tesi dell'origine comune nelle mitologie popolari del motivo del Diluvio universale
diffuse, oltre che nel vicino oriente, anche in Grecia, Australia, Africa, America e
nelle isole dei mari del sud.
(10) C.B.Boyer, pag. 3.
(11) La mancanza di analisi filologica non è grave limitazione a questa interpretazione
del mito del frutto proibito. Il mito è una tradizione orale che non può conservarsi
sempre esattamente uguale, anzi, un unico narratore può, in diverse occasioni, apportarvi
modifiche ritenute opportune. Il mito si irrigidisce solo in tempi successivi, quando
le civiltà entrano in possesso della scrittura. L'esatta ricostruzione filologica del
testo può non influire sul significato di un mito (cfr. A. Brelich, pag. 9).
(12) Il selvaggio e valoroso Enkidu, che nel parallelo mito mesopotamico corrisponde
all'Adàm biblico, ha il corpo completamente irsuto come una scimmia (cfr. J.B. Pritchard,
pagine 74, 75). Analogamente i neandertaliani, nelle ricostruzioni ipotetiche, vengono
rappresentati coperti di pelo. Perciò si può pensare che nella Genesi è detto che gli
uomini si accorsero di essere nudi perché prima erano rivestiti di pelo, e questo ci
riporta al paleolitico, quando la somiglianzà degli uomini con le scimmie era maggiore.
Anche lo Yeti, come Enkidu, è immaginato come uno scimmione peloso, selvaggio e
solitario, o comunque poco socievole. E gli antropologi suppongono che i neandertaliani
passassero la vita in gruppi isolati o in solitudine individuale. Si prospetta così
questo collegamento, nei vari miti, tra Adàm e l'uomo preistorico: Adàm = Enkidu,
Enkidu = Yeti, Yeti = uomo preistorico (cfr. Grande dizionario enciclopedico UTET,
voce "Yeti").
(13) I primitivi ignoravano le cause della morte, a loro non interessa come avviene
ma chi la provoca. Lévy-Bruhl scrive: "...quando (i primitivi) vedono morire un uomo
sembra che per loro questo fatto si verifichi per la prima volta, e che non ne siano
mai stati testimoni... Se dunque, a un dato momento sopravviene la morte, è perché
è entrata in gioco una forza mistica... Persino gli individui più intelligenti non
si lasciano convincere che la morte possa provenire da cause naturali... se un
guerriero è ucciso da un colpo di lancia in uno dei loro combattimenti rituali, è
perché ha perso la sua abilità nel parare o nell'evitare la lancia, per effetto
della magia malefica di un membro della sua tribù. Ma dubito che in nessuna parte
dell'Australia, gli indigeni nella loro prima condizione, abbiano concepito la
possibilità della morte semplicemente per malattia". (Cfr. L. Lévy-Bruhl, pagg. 20-23).
Del resto è noto che la psicoanalisi ha dimostrato che anche in casi di morte
naturale i sopravviventi avvertono un senso di colpa, la morte è avvertita come
un evento psichico e non fisico.
Dunque, pur essendo la conoscenza del bene e del male di cui parla la Bibbia
null'altro che la conoscenza del bene della vita e del male della morte, essa non
deve essere intesa come conoscenza materiale, bensì spirituale, in quanto la causa
di morte per prima immaginata fu spirituale. Il giorno in cui si concepì la morte
come una punizione da parte di spiriti delle proprie colpe, nacque la civiltà umana.
(14) G.von Rad, pag. 93.
(15) S.L. Washburn, pag. 227.
(16) S.L. Washburn, pag. 395.
(17) Il cannibalismo dell'uomo di Neanderthal è testimoniato dai reperti fossili.
Cfr. S.L. Washburn, pagine 203 e sg.
(18) La possibilità che un comportamento sessuale comunque deviato sia stato una
causa di estinzione è confermata dal fatto che negli uomini e negli scimpanzé non
è istintivo ma deve essere appreso (cfr. S.L. Washburn, pagg. 80, 81).
(19) Il diritto di vita e di morte dei genitori sui figli si è mantenuto fino a
epoche recenti. In molte società primitive un bambino non sembra considerato nato,
finché non si celebra un particolare rito che gli conferisce lo statuto di
bambino nato. Se muore prima di questo rito la famiglia se ne disfa come di un
oggetto qualsiasi (cfr. A.Brelich, pag. 33).
Ma l'uccisione dei figli non è prerogativa umana. Presso certe scimmie, i maschi
più forti, dopo aver vinto una lotta per il dominio del branco, a volte cercano
di uccidere a morsi i figli degli sconfitti (cfr. R.H. Hinde, pag. 301).
(20) La dinamica del rapporto madre-figlio ha importanza dal punto di vista della
selezione naturale. In base a uno studio condotto sulle scimmie, Trivers afferma che
tra madre e figlio ci sono interessi opposti. La madre tende a affrettare lo
svezzamento per potersi dedicare a una nuova progenie e assicurare la conservazione
della specie per mezzo di una numerosa prole. Il figlio tende invece a prolungare le
cure della madre su se stesso in quanto un allontanamento prematuro pregiudicherebbe,
sia nella psiche sia fisicamente, la sua affermazione nella vita. La capacità di
raggiungere un compromesso tra queste opposte esigenze è un fattore di selezione
naturale (cfr. R.A. Hinde, pag. 182-194).
Nei rapporti madre-figlio osserviamo una differenza tra le scimmie e l'uomo. La
scimmia madre affretta l'allontanamento di un figlio per essere disponibile al
successivo. Nell'uomo, per il quale il periodo dell'infanzia è molto più lungo,
viene ritardata la nascita di altri figli per assicurare il benessere di quello attuale.
Questo si nota soprattutto nelle culture più primitive, quelle dei raccoglitori-cacciatori,
in cui o l'allattamento continua fino ai 3-4 anni e nel frattempo nuove gravidanze
sono evitate per mezzo di tabù sessuali, o si sopprimono i neonati quando si giudica
insufficiente la disponibilità di cibo. Cosi notiamo che nell'evoluzione dalla scimmia
all'uomo vi è stato un capovolgimento delle relazioni madre-figlio, per cui
l'incapacità di adattamento al nuovo tipo di rapporto è stata causa di selezione degli
ominidi.
(21) Una analoga distinzione, sia pur basata su motivi di ordine esclusivamente
sociale e non anche individuale, tra l'Homo sapiens e gli altri ominidi è stata
proposta da Debetz (cfr. S.L. Washburn, pagine 222, 223).
(22) Gli argomenti di W. Schmidt e A. Bea a sostegno della ipotesi del paleolitico
superiore sono riportati da P.A. Testa, pagine 340, 349, 350. Qui se ne riferiscono
alcuni passi. "...(dapprima) l'uomo viveva della raccolta di quei frutti che
spontaneamente crescevano sugli alberi (Adamo e Eva) o degli animali presi con la caccia,
in seguito esso diede inizio a una duplice cultura"... "Caino e Abele sono la
personificazione di queste due culture di cui il primo (Caino) raffigura il
ciclo agricolo e il secondo (Abele) quello pastorale " (pagina 340). "La musica
adottata dai discendenti di Caino non ci fa scendere al neolitico, perché nello
stesso paleolitico superiore troviamo tibie di osso lavorate, comprovanti l'esistenza
di strumenti musicali" (pag. 349). A. Bea così traduce il versetto Gn. 4,22:
"E anche Sella partorì Tubal Qayn che polì (acuminò) ogni strumento per incidere".
Scompare in tal modo il richiamo ai metalli (ferro e rame), gli strumenti di
incisione possono benissimo essere stati composti di selce (pagina 350). "La
genealogia dei Cainiti (Gn. 4, 17-24) idealizza la cultura etnologica del patriarcato
esogamico " (pagina 350). Tra i pochi autori contemporanei che seguono l'ipotesi del
paleolitico è da citare anche P. Grelot, del quale qui si riporta un passo:
"Anche i tipi di peccati (fratricidio di Caino, poligamia di Lamek, ecc.) non sono
delle invenzioni dell'epoca storica in cui vivevano gli autori biblici, ma risalgono
ai tempi molto antichi della preistoria" (pag. 117). Infine si deve notare che nelle
società primitive (come osserva E. Fromm, pagg. 161, 162) la punizione più severa per
i misfatti era spesso l'ostracismo (come appare dalla punizione di Caino nella Bibbia)
piuttosto che la morte.
(23) G.Heberer, G.Kurth, I. Schwidetzky, pag. 291.
(24) G. von Rad, pag. 91.
(25) Da questi uomini preistorici estinti (cherubini e figli di Dio) sono probabilmente
derivati i miti degli esseri intermedi tra gli uomini e gli dei.
(26) P.E. Testa, pagg. 363, 370.
(27) Il carattere di Jahweh è analogo a quello dell'Essere supremo indoeuropeo.
L'esistenza di un dio del cielo (Essere supremo) oltre a essere presente in tutte
le religioni dei primitivi nostri contemporanei, è così profondamente radicata
nella storia della religione dal neolitico in poi che questo aspetto trascendentale
della Divinità potrebbe risalire a un periodo antichissimo, antecedente al sorgere
delle civiltà più evolute del vicino oriente. Sulla universalità e antichità del Dio
del cielo vedasi E.O. James, pagine 195-214.
(28) W. Schmidt, pag. 380.
(29) W. Schmidt, pag. 377.
(30) R. Pettazzoni.
(31) G.von Rad, pag. 116.
(32) P.E. Testa, pagg. 280, 281.
(33) L'etnologia non è in grado di chiarire l'origine della idea della divinità
in genere e dell'Essere supremo in particolare. Cfr. E.E. Evans-Pritchard.
(34) M. Eliade, pag. 109.
(35) K. O. L. Burridge, pag. 120.
(36) P.E. Testa, pag. 331.
(37) Quanto scritto in seguito sul mito delle razze è stato estratto dai testi
di C. Kerenyi, voi. I, pagine 188-190, e di J.P. Vernant, pagine 13-38.
(38) R. Otto, pagg. 41, 42, 61.
(39) Il nulla è un concetto di una intuitività elementare, ciò nonostante è
difficilmente esprimibile perché la sua effettiva concezione è così angosciante
che viene immediatamente allontanata dall'affermazione dell'essere: l'idea dell'essere
è creata dall'esperienza del nulla. Secondo Schmidt e altri la creazione dal nulla
è un concetto noto anche a popoli primitivi. Cfr. W. Schmidt, pagg. 271, 309, 389.
Ma sembrerebbe che anche nel racconto delle origini di Esiodo, in cui il caos è nominato
per primo, si intenda la creazione dal nulla, perché secondo quanto dice Kerényi:
"Nella nostra lingua (greca) antica c'era una parola per lo spazio cavo, la parola
"chaos", che veramente indicava soltanto che esso era "spalancato". Chaos,
originariamente, non significava affatto confusione, mescolanza; la parola assunse
questo significato, oggi abituale, più tardi, quando fu introdotto il principio dei
quattro elementi". In origine caos significava soltanto "un vuoto spalancarsi".
Cfr. C. Kerényi, pag. 27.
(40) R. Pettazzoni, pagg. 93, 94.
(41) M. Jammet, pag. 37.
(42) Grande diz. enciclopedico UTET, voce Elohìm.
(43) E.E. Evans - Pritchard, pag. 185, 186.
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Settembre 2007.
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